mercoledì 29 dicembre 2010

IL WEEKEND CON GIGOLO DI ALAN AYCKBOURN

LE CONQUISTE DI NORMAN - IN SALA DA PRANZO
di Alan Ayckbourn
con Giovanni Prosperi, Daria D'Aloia, Elisabetta Becattini, Fabrizio Careddu, Eleonora d'Urso, Marco Zanutto
regia di Eleonora d'Urso

Finalmente si ride: con intelligenza, con arguzia, con quello stile asciutto e incisivo tipicamente inglese, e con molta modernità (nonostante il testo sia stato scritto nel 1973).
Alan Ayckbourn trova la formula giusta per ottenere un risultato di brillante comicità: metti in un casa campagna una ragazza semplice intenta a curare la madre inferma (Annie), un veterinario impacciato e un po' lento a capire gli affari di cuore (Tom), una donna decisamente nervosa tendente all'isteria (Sarah), un uomo un po' grezzo nei modi (Reg), una donna in carriera (Ruth) e uno "gigolo imprigionato nel corpo di uno spaventapasseri" (Norman)... mischia gli ingredienti e il risultato è una serie di situazioni in cui si ride. Ma dietro al riso si apre incerto il sorriso dell'ironia, che ha un gusto un po' più amaro quanto più da vicino ci coinvolge.
L'intellegenza dell'autore sta nello smascherare situazioni quotidiane: se è vero che il teatro è lo specchio della realtà, questo spettacolo prende in giro quello stesso pubblico che assiste alla commedia. Chi non ha mai avuto a che fare con un uomo irrimediabilmente incapace di esprimere i propri sentimenti e di prendere una decisione? E quante volte abbiamo partecipato all'assegnazione dei posti a tavola, come nell'esilarante scena della cena?
Se il primo atto è più leggero, nel secondo vengono affrontati temi più complessi e tutti attuali: l'identità della donna da sempre in bilico tra l'essere donna-in-carriera e donna-madre, la rivendicazione del proprio ruolo all'interno della famiglia (piccolo nucleo sociale), il senso della famiglia che viene messo in discussione (nessun personaggio sembra avere rispetto del reciproco legame familiare). Infine il tradimento: come nasce, perché nasce, cosa scatena in chi tradisce e in chi è tradito. 

La The Kitchen Company, compagnia che ha fatto della drammaturgia inglese contemporanea la base del proprio repertorio, mette in scena Le conquiste di Norman con merito, ma con qualche incertezza nel debutto. Sicuramente il rodaggio delle repliche gioverà al ritmo e alla definizione di qualche dettaglio tecnico (luci). 
Interessanti tutti gli attori in scena, ma i personaggi sono costruiti in maniera troppo caricata. Data la comicità insita nel testo, la loro interpretazione troppo caricaturale risulta ridondante.: forse cercando una maggiore verità dei personaggi anche il testo sarebbe emerso in maniera più efficace.
Tra gli interpreti si distingue Giovanni Prosperi (già apprezzato in Nemico di classe): il suo Tom è indubbiamente il personaggio più credibile e insieme il più comico. Il suo ingresso, preparato dalla descrizione di Sarah ed Annie, strappa una risata grazie semplicemente alla postura goffa e all'espressione allampanata. 

visto al Tieffe Teatro Menotti il 28.XII.2010

Ascolta l'intervista a Eleonora d'Urso, ospite di Babel a Radio Popolare:
http://mir.it/servizi/radiopopolare/blogs/babel/2010/12/29-dicembre-babel-e-una-trilogia-di-ayckbourn/

Per informazioni su calendario e orari delle recite:
Tel. Tieffe Teatro: 02/36.59.25.44 - 02/36.59.25.38


Per informazioni sulla Compagnia: 
http://www.thekitchencompany.it/index.php

domenica 26 dicembre 2010

THE KITCHEN COMPANY TORNA ALLA COMMEDIA


Dopo due testi di impegno sociale, Mea culpa e Nemico di classe, la The Kitchen Company torna al repertorio comico con Le conquiste di Norman di Alan Ayckbourn, che debutterà il 28 dicembre al Tieffe Teatro Menotti e resterà in scena fino al 16 gennaio.

La commedia si compone di tre parti creando una trilogia ambientata nei tre diversi ambienti domestici in cui svolge la vicenda: In sala da pranzo, In salotto e In giardino.
Al centro della storia tre coppie: Annie e il veterinario locale Tom; il fratello di Annie, Reg, e la moglie Sarah; la sorella di Annie e Reg, Ruth, e Norman. Tutti si ritrovano nella casa di campagna della madre malata di Annie, dove Norman cercherà di conquistare la cognata e Sarah, e di rispondere alle minacce di separazione di sua moglie Ruth. A queste dinamiche si aggiunge il tentativo da parte di Sarah di velocizzare un possibile matrimonio tra Annie e Tom, e l’ottusità di Reg che non si rende conto degli effetti che le avances di Norman hanno sulla moglie Sarah.
Questi ingredienti danno luogo a tre commedie brillanti basate su equivoci, ripicche, dispetti, messe in scena con ritmo incalzante e con scene di comicità brillante.
Le commedie possono essere viste separatamente in quanto indipendenti l’una dall’altra: nonostante rappresentino gli stessi personaggi sviluppano un’atmosfera e caratteristiche strutturali differenti.

Alan Ayckbourn (1938), autore inglese che ha costruito i suoi successi sulla commedia borghese (ricordiamo anche Camere da letto), ha scritto Le conquiste di Norman nel 1973. La prima rappresentazione della pièce risale allo stesso anno; dopo tre anni di rappresentazioni questo testo venne abbandonato per essere riscoperto nel 2006, quando Kevin Spacey lo volle riportare in scena all’Old Vic, teatro di cui era direttore artistico.

La The Kitchen Company ha presentato questo spettacolo la scorsa estate in occasione del Festival dei Due Mondi di Spoleto, che già fece da vetrina nel 2009 allo spettacolo Un piccolo gioco senza conseguenze.
La regia è affidata a Eleonora D’Urso, qui anche interprete del personaggio di Sarah. Con lei in scena cinque attori under 30 di grande talento: Giovanni Prosperi (Tom), Fabrizio Careddu (Norman), Marco Zanutto (Reg), Daria D’Aloia (Annie) ed Elisabetta Becattini (Ruth).

SAN SILVESTRO CON LA KITCHEN COMPANY
A Capodanno verrà proposta tutta la trilogia a un prezzo speciale, e alla mezzanotte ci sarà un brindisi con la compagnia per festeggiare il nuovo anno.
Per informazioni su costi e orari: http://www.tieffeteatro.it/_f.10/00_base/base.php

Per informazioni su calendario e orari delle recite: 
Tel. Tieffe Teatro: 02/36.59.25.44 - 02/36.59.25.38

Per informazioni sulla Compagnia: 
http://www.thekitchencompany.it/index.php

lunedì 13 dicembre 2010

Il mio personale MEA CULPA

Uno dei sette peccati capitali è la superbia. La prima cosa che non farebbe mai il superbo è ammettere i propri sbagli, quindi ammetto il mio errore di valutazione per allontanare il sospetto che io sia presuntuosa.
Mi sono sbagliata nel giudicare la The Kitchen Company.
1) Innanzitutto le ragazze: non è vero che non hanno una valida preparazione alle spalle. Delle attrici di Mea culpa, tranne un'eccezione (peraltro voluta), alcune sono uscite dalla scuola del Piccolo di Milano, altre dalla scuola diretta da Gastone Moschin (realtà che non conoscevo e che ho sottovalutato).
2) Non è vero che non c'è un lavoro di regia: il fatto che non l'abbia riconosciuto è un'opinione personale, mentre invece non ero a conoscenza del lavoro che è stato fatto con gli attori di Nemico di classe
3) Ecco qual è il punto: "non lo sapevo". Il vizio più grave che ho dimostato sta, più che nelle parole, nell'atteggiamento: non si possono fare affermazioni senza averne prima verificato la rispondenza alla realtà (al di là dei giudizi di gusto, che sono personali). Quello di attenersi alla verità accertata (e su questa basarsi per esprimere la propria opinione) è un atteggiamento etico che deve essere messo in campo fin da subito e indipendentemente dal numero di persone che entrano in contatto con il nostro giudizio.
Ho avuto la fortuna e il piacere di mettere a verifica le mie affermazioni con la persona che meglio poteva chiarire e smentire: proprio Massimo Chiesa, bersaglio delle mie critiche.
Dialogo e confronto: due concetti che troppo spesso ultimamente sembrano essere stati oscurati dal mondo teatrale. La società teatrale di domani (in cui noi giovani saremo chiamati a essere protagonisti) si costruisce nell'oggi attraverso uno scambio costante tra professionalità, generi, realtà, generazioni. Massimo Chiesa ha dimostrato di mettere in pratica questo principio dimostrandosi una persona estremamente aperta e generosa. 
...Una bella lezione!

domenica 12 dicembre 2010

I segreti di Arlecchino ci fanno sognare

I SEGRETI DI ARLECCHINO
di e con Enrico Bonavera

Questo spettacolo è un regalo, e come tale non dovrebbe essere sprecato perché troppo prezioso per non coglierne il valore artistico, tenico ed educativo.
Enrico Bonavera, reduce da anni di tournée con lo storico Arlecchino che fu di Strehler e che ora è di Soleri, è uno dei maggiori esperti italiani ed europei di Commedia dell'Arte, e proprio per farci (ri)scoprire il teatro delle Maschere ha costruito questo percorso agilissimo nella tradizione del nostro teatro.  
Alternando la cornice storica di contestualizzazione e l'interpretazione delle Maschere più famose, Bonavera ci porta a Venezia e a Genova, e dipinge queste città con tanta vividezza che ci sembra di essere sul Ponte di Rialto o in Via Balbi. 
Si rimane affascinati, stupefatti, stregati per la rapidità, l'abilità tecnica, la precisione con cui Bonavera dà vita alle Maschere: Zanni, Pantalone, il Dottore, il Capitano. E per finire la Maschera più popolare: Arlecchino.
Bonavera è scuola vivente di tecnica fisica e vocale, ma anche di storia della Commedia. Ci racconta aneddoti sulla nascita delle Maschere che sui manuali non si trovano: per esempio, Pantalone in origine era il Mercante ebreo, come dimostrano il berretto rosso e le calzature orientali. E proprio le scarpe, più ancora delle maschere, sono il segno distintivo che caratterizza i personaggi. Il brindisi finale alle personalità che hanno fatto la storia della Commedia è un bel modo per farci conoscere nomi che altrimenti rimarebbero oscurati dai secoli che sono passati.
Già, sono passati secoli dalla nascita della Commedia, quasi cinquecento anni. Eppure guardando la magia dell'attore che crea un universo di gesti, voci, posture, grazie a una maschera, qualche elemento costumistico, ma soprattutto grazie a se stesso e al proprio corpo; guardando questo spettacolo non possiamo non ritrovare le nostre origini che ci portiamo dentro come un marchio, una grandezza che ci ha reso gli inventori del teatro moderno, con quella figura dell'attore-artigiano-artista-giullare che si inventa un mondo e vi ci porta tutti quelli che lo guardano e che stanno al suo gioco. Il gioco del teatro. Forse la Commedia nasce come un gioco, per evitare censure e condanne. Forse il teatro rimane sempre un luogo dove si giuoca a fare sul serio. Forse proprio nella Commedia riconosciamo la nostra unità culturale, la nostra atavica appartenenza a una medesima tradizione. Io credo che sia importante mantenere questa tradizione e ritrovare in essa la dignità e l'orgoglio del nostro teatro, soprattutto oggi che questo nostro teatro viene fortemente messo in discussione. Non disperiamoci: se il teatro è sopravvissuto agli anni medievali della censura e della condanna ecclesiastica, per poi rinascere dando vita proprio alla Commedia direi che possiamo avere la speranza che torneranno a fiorire gli anni del grande teatro. Ma soprattutto: possiamo essere sicuri che il teatro non morirà mai. Anche senza sovvenzioni statali.
Ultima considerazione: forse se questo spettacolo fosse stato rappresentato alla Scatola Magica del Piccolo Teatro gli sarebbe stato riconosciuto il valore che ha. La sala fa il monaco, purtroppo. Per questo motivo vanno sostenute le sale che hanno una programmazione attenta alla drammaturgia contemporanea e che propone lavori di qualità (anche se meno blasonati): lo Spazio Tertulliano è una nuova, piacevole realtà.

visto allo Spazio Tertulliano il 11.XII.2010

giovedì 9 dicembre 2010

THE KITCHEN COMPANY - due mesi dopo...

A distanza di quasi due mesi dal mio primo approccio alla The Kitchen Company ho rivisto "Nemico di classe" e ho visto "Mea culpa". Cosa è cambiato nel mio giudizio dopo due mesi?
Rispetto a quanto scritto subito dopo aver visto lo spettacolo e alla luce delle prime informazioni raccolte sulla Compagnia il giudizio generalmente positivo non è cambiato, ma sicuramente è stato approfondito e si è affinato. Non sono tutti bravi, i due spettacoli non sono geniali, l'operazione di Massimo Chiesa con questi 32 ragazzi è molto meno poetica di quanto non mi sia sembrata inizialmente. 
Sicuramente sul giudizio rivisto e corretto influiscono anche le informazioni un po' meno ufficiali (ma quasi sempre molto più utili, quando non viziate da malevolo pettegolezzo - e non è questo il caso) che ho raccolto. Non credo, però, che in un giudizio consapevole e maturo debbano entrare questi fattori: e qui mi faccio una bella autocritica!
Dovremmo attenerci al giudizio dell'aspetto artistico (e organizzativo, se c'è materiale su cui discutere...) perché la dimensione privata non ci compete. Ci riguarda decisamente di più se le faccende private si riflettono davanti allo spettatore che abbia occhio allenato e acuto. 
La mancanza di professionalità di molti componenti artistici e (cosiddetti) organizzativi della Compagnia è evidente nei ritardi costanti e consistenti nell'inizio degli spettacoli, nelle (non) presenze al botteghino di un responsabile di compagnia, nella dubbia preparazione professionale di molti attori (attrici). 
Apriamo il capitolo artistico: in entrambi gli spettacoli manca completamente la regia. E non è cosa che si riesca a nascondere. 
"Mea culpa" ha un testo molto interessante e forte sul moralismo cattolico che mostra contraddizioni e ipocrisie. Peccato aver sprecato la drammaturgia per l'assenza di un regista vero. Personaggi impostati tutti sulla stessa linea interpretativa, con attrici che non hanno gli strumenti per mettere una toppa a questo buco direttivo.
La differenza tra i due spettacoli è questa: a parità di assenza registica sono gli attori a fare la differenza. E a parità (quasi) anagrafica è la preparazione professionale a fare la differenza. Ecco il punto: i ragazzi sono diplomati alla Silvio D'Amico e il loro spettacolo funziona. Le ragazze sono...no, non sono diplomate a nessuna accademia, il loro curriculum lo dice. Il loro spettacolo è noioso e ripetitivo, monocorde e superficiale (parlo sempre di interpretazione).
Torniamo a "Nemico di classe". Prima visione: tutti bravi. Seconda (e terza) visione: bravi Prosperi-Kermit e Avagliano-Bago, con delle potenzialità Nicchi-Iron. Gli altri non incisivi. Bajo-Spillo un passo indietro agli altri.
Nella loro interpretazione appare chiarissimo che non sono stati diretti da un regista. Come hanno costruito il proprio personaggio è frutto di alcune sommarie indicazioni e poi niente più, lasciati alla propria fantasia e al proprio talento.
Allora si capisce la rigidità di Nicchi nella voce e nel corpo: probabilmente non ha trovato (perché il regista non ce l'ha condotto) un modo personale che sentisse come vero per interpretare il capo branco. 
Tanto più, quindi, risaltano Prosperi e Avagliano: i rispettivi personaggi non sono stati scritti per emergere sugli altri; se in questo spettacolo risultano più incisivi è perché i due attori hanno trovato dentro se stessi qualcosa in più da dare al personaggio. Nell'autogestione emergono i migliori.

"Odio talmente gli uomini che mi farebbe orrore essere come loro"

Promossi al primo incontro: Massimo Castri e Massimo Popolizio superano bene il primo approccio a Molière (curioso pensare che entrambi nella loro feconda carriera non avevano ancora affrontato il Classico francese).
Lo spazio che Castri sceglie per ambientare la commedia (tragedia?) è di elegante rigore geometrico, scandito dalla ripetizione di specchi simbolici appesi a freddissime pareti grigie. E' il teatro su cui agisce un personaggio a cui Popolizio dà il calore umano della passione, dell'invettiva, della disperazione. La sua interpretazione è uno degli elementi più forti di questo spettacolo. Quando l'attore dà sangue a un personaggio il risultato è di grande forza e non c'è scampo per lo spettatore: deve stare incollato di fronte alla scena, costretto a riflettere, a interrogarsi, ad analizzare. 
Bisogna dire che risalta luminosissimo il potere eterno di questo testo sempre così attuale, sempre così ricco di spunti su cui avviare una profonda inchiesta della  società (della nostra come di quella di ieri, così come di quella di domani). Il misantropo non è banalmente colui che odia gli uomini. Alceste è un personaggio molto più complesso: il suo atteggiamento nei confronti del mondo e degli uomini è quello di una estrema franchezza, una sincerità che lo porta a dire sempre la verità - anche quando questa risulta spiacevole. La diplomazia rappresenta il compromesso che non vuole accettare, il prezzo che non vuole pagare per sentirsi integrato in una società governata dall'opportunismo che lui invece rifiuta. Non difende il diritto di dire quello che pensa senza freni; invoca l'altezza morale dell'onestà nei rapporti con gli altri.
La sua razionalità nel seguire in maniera integerrima i propri principi viene sopraffatta dal sentimento che prova per Celimène, l'incarnazione di tutto ciò che lui odia della società: frivola, mondana, ambigua, Celimène gioca con tutti e non prende impegno con nessuno, in questo futile gioco della seduzione in cui lei esercita il potere derivante dal suo fascino. 
Nel destino del misantropo è scritta la solitudine, scelta come unica alternativa per continuare a essere un galantuomo ed evitare di scendere a compromessi con le finzioni della società, con i "falsi pudori" e le "tristi miserie" degli uomini.
La regia di Castri esalta la Parola, vera protagonista di questo testo. Ci ha sorpresi incontrare un Castri ordinato, misurato, attento al significato profondo del testo e non alle sue declinazioni esteriori. Non rinuncia per questo a dare la sua interpretazione attraverso la scenografia quasi chirurgica, sottolineando più che l'odio verso gli uomini la difesa estrema della franchezza e della trasparenza nei rapporti di amicizia e d'amore. Di significato anche la modifica al testo del finale: se in Molière l'ultima parola era dell'amico Filinte, Castri fa calare il sipario sull'ultima parola pronunciata da Alceste, "galantuomo".
Lo spettacolo fa emergere tutti gli spunti di riflessione presenti nel testo, indagandoli in maniera forse un po' troppo didattica. Il pericolo di cadere nel didascalismo è comunque evitato grazie, ripetiamo, all'interpretazione viscerale di Popolizio. Il resto della compagnia è discreto ma nemmeno lontanamente avvicinabile al livello del protagonista. Si distingue Graziano Piazza nel ruolo di Filinte, l'unico amico sincero di Alceste. Mostra, invece, i propri limiti l'interpretazione di Federica Castellini nel ruolo di Celimène. Paga sicuramente l'affiancamento a un mostro come Popolizio, paga (forse) la giovane età (Celimène è tutt'altro che personaggio semplice, ricco com'è di colori, sfumature, evoluzioni). Più di tutto, però, forse manca quella materia umana personale a cui attingere per interpretare in maniera non banale personaggi di tale ricchezza. Del resto, però, è un quesito che non ha ancora trovato soluzione: per interpretare un grande personaggio bisogna essere una grande persona? Io credo che questo sia necessario per dare a questi personaggi il valore che possiedono per come sono stati concepiti dell'autore. Potreste dirmi cosa ne pensate voi in proposito...

visto al Piccolo Teatro Strehler il 8.XII.2010

IL MISANTROPO
di Molière
regia di Massimo Castri
con Massimo Popolizio, Graziano Piazza, Sergio Leone, Federica Castellini, Ilaria Genatiempo, Laura Pasetti, Tommaso Cardarelli, Andrea Gambuzza, Davide Lorenzo Palla, Miro Landoni

lunedì 22 novembre 2010

LA SCUOLA DELLE MOGLI

LA SCUOLA DELLE MOGLI
di Molière
versione italiana e adattamento di Valter Malosti
regia di e con Valter Malosti
con: Mariano Pirrello, Valentina Virando, Giulia Cotugno, Marco Imparato, Fausto Caroli, Gianluca Gambino
Produzione Teatro di Dioniso e Teatro Stabile di Torino

Diciamolo subito: questo di Malosti è uno spettacolo fatto bene, intellettualmente onesto, coerente con l'istanza autoriale. La compagnia è nel complesso di discreto livello, ed è una rarità soprattutto in spettacoli, come questo, impostati sul capocomico-mattatore. Malosti si ritaglia questo ruolo, sicuramente qui ne è sempre all'altezza. 
E' la scelta di impostazione che non ci convince. O meglio, che contrasta vivamente con la nostra idea di messinscena di un classico. L'ambientazione gotica e grottesca ci piace, è un'idea originale applicata a La scuola delle mogli; ma in molti casi Malosti oltrepassa il limite dell'ortodossia. Se da un lato questo stile alla Tim Burton cattura immediatamente lo spettatore, alcune scelte allontanano un po' troppo dal testo: la colonna sonora costante, la vocalità sempre spinta e sempre urlata, l'accompagnamento alla chitarra di un Orace-cantastorie-cantautore, la contaminazione musicale con brani di Verdi, Gaber, Leo Ferré. I servi e Agnèse parlano ricorrendo a un grammelot di italiano e francesce divertentissimo, ma abusato. L'impressione è che tutte le trovate siano utilizzate troppo a lungo e in troppe occasioni. Un assoluto e indiscutibile pollice verso per due trovate: la rappata di Agnèse che racconta il primo incontro con Orace, e il decalogo della buona moglie letto da un'improbabile suora vestita alla maniera di Lady Gaga, che improvvisamente rimane (quasi) nuda alla maniera delle ballerine del Moulin Rouge (forse meno raffinata). Decisamente trash, povero Molière.
Gli attori, abbiamo detto, sono di discreto livello. Agnèse si presenta come una bambolottona ingenua in stile Alice nel paese delle meraviglie, e ci convince più di quando invece mostra la sua maturità nell'autodeterminazione del proprio destino mostrandosi più intelligente e consapevole di quanto Arnolphe non credesse. Il personaggio di Arnolphe viaggia per tutto lo spettacolo su un livello psicologico superficiale ed esteriore - comunque sempre coerente con l'impostazione della messinscena. Ci piace molto di più alla fine, quando mostra una verità dei sentimenti nel momento in cui la sua passione inaspettata lo fa vacillare nel suo proposito di prevaricazione. Per passione, quella che scopre di provare per Agnèse, si trasforma in un altro uomo. E questo è quello che l'amore dovrebbe provocare in tutti gli uomini (e le donne).
Rimaniamo comunque dell'idea che questi divertissement non si addicano a un testo come questo, che andrebbe affrontato con il rigore che merita. Si può essere moderni anche senza traslare la Parola in altre dimensioni incongrue. Questo, inoltre, è un testo che possiede una modernità insita nelle parole: il dramma di un marito geloso, con un'attualità che ci racconta quasi quotidianamente di violenze di vario genere sulle donne e di omicidi per moventi di gelosia. Agnèse, così innocente, rivela una donna matura che decide del proprio destino: se non è moderna questa evoluzione...
Un pregio di questo spettacolo, da non sottovalutare: trova una chiave originale ed efficace per far arrivare un testo classico al pubblico, e c'è bisogno di un ponte tra autori e spettatori.

Link al video dello spettacolo: http://www.youtube.com/watch?v=hLe0IfDGIgw

visto al Teatro Franco Parenti il 17.XI.2010

domenica 21 novembre 2010

TANTE RISATE CON COLPO DI SCENA (AGRODOLCE)


ERA ORA
di Alessandra Scotti
regia di Corrado Accordino
con Silvana Fallisi e Alfredo Colina


Lei entra in bagno, si dà una sistematina e quando esce dimentica l'anello sul lavandino. Lui entra in bagno dopo di lei, quando esce trova l'anello, ma goffamente lo fa scivolare nello scarico. Lei torna indietro alla ricerca dell'anello, si convince che lui glielo abbia rubato e lo "rapisce" (chiude a chiave la porta del bagno impedendogli di uscire). Lei è una donna tanto bella quanto singolare, lui è il classico uomo goffo che ha soggezione di fronte a una donna che tiene in mano la situazione. Uno sfigato, praticamente.
Inizia un susseguirsi di situazioni comiche date dai giochi di parole, dagli equivoci, dalle reazioni che l'uno provoca nell'altra e viceversa. Soprattutto, date da una struttura drammaturgica basata sulla sospensione e la divagazione, con giochi di ruoli, rottura della famigerata quarta parete (anzi vera e propria apertura, dato che il personaggio femminile mima l'azione di aprire una cerniera), situazioni quasi oniriche per il mescolarsi di personaggi che non hanno apparente attinenza con la storia.
Tra risate, applausi (troppi, al limite della sopportazione: bisognerebbe creare un corso di educazione del pubblico per far capire agli spettatori che non si trovano in uno studio televisivo. Abbiamo già sottolineato questa infelice tendenza del pubblico, stasera abbiamo superato ogni limite con un applauso scrosciante sull'apertura del sipario), momenti comici (alcune divagazioni sono esilaranti, come quella sul chakra), il pubblico aspetta la spiegazione dei fatti e la riconciliazione finale, e invece...
Corrado Accordino, regista evidentemente ispirato dal rovesciamento dell'aspettativa (ricordiamo la messinscena de La cosmetica del nemico di Amélie Nothomb), mette in scena un finale spiazzante: tutta la vicenda è il frutto dell'immaginazione del personaggio maschile. Dopo un monologo in cui sottolinea l'indifferenza reciproca che regola i rapporti che quotidianamente intrecciamo con le persone che incontriamo, capiamo che il desiderio di un uomo solo e disilluso di stabilire un contatto umano autentico con chi lo circonda è così intenso da fagli immaginare di interagire con la donna incontrata in bagno. 
Scopriamo così che a teatro si può ridere (e tanto, come in questo caso), e si può farlo non rinunciando all'intelligenza, ma anzi veicolando attraverso il riso considerazioni amarissime come quelle sulle nostre relazioni sociali inaridite. 
Il tema richiama quella "incomunicabilità" già fulcro del Teatro dell'Assurdo; ma qui, invece che prendere un testo di Beckett (che riconosciamo come Classico) e forzarlo per renderlo aderente alla nostra attualità, si è scelto un testo nuovo di una giovane drammaturga. 
Lo spettacolo è spassoso: gli attori sono in parte, la Fallisi è padrona della scena, le scelte registiche (dalla scenografia alle musiche) sono fortunate. Si potrebbe addirittura spingere ancora di più questa caratteristica spiazzante e approfondire un tema così urgente in questo periodo storico.
Purtroppo oggi, 21 novembre, è l'ultima replica ai Filodrammatici e lo spettacolo ha vissuto tre settimane di presenza in cartellone nell'assoluta indifferenza dei critici, che evidentemente hanno snobbato un prodotto comico ancorati al pregiudizio che il teatro comico equivalga al cabaret (magari anche fatto male). Questa è una gravissima mancanza da parte di chi, come il critico, è chiamato (o almeno dovrebbe esserlo) a fornire agli spettatori degli strumenti per scegliere, interpretare, apprezzare. Invece notiamo una tendenza a indirizzare il pubblico verso i prodotti commerciali, o, ancora peggio, verso prodotti di dubbio valore artistico e culturale, che rappresentano solo l'infatuazione senile di alcuni critici ormai in età ampiamente pensionabile nei confronti di una giovinezza che non verrà loro restituita. Mi riferisco a Franco Quadri e Gianfranco Berardi, e chi è stato al Litta alla prima di Land lover capisce (e forse condivide).
Forse se la comunità teatrale la smettesse di considerarsi divisa in settori e iniziasse a dialogare e a contaminarsi si potrebbe superare meglio e più in fretta questa crisi. Ma, come ci mostrano i due protagonisti della pièce, gli uomini non comunicano, non entrano in contatto tra di loro, non dialogano realmente. 

Se avrete l'occasione di vedere questo spettacolo in altre piazze vi consiglio di non perdervelo.
Per la tournée di "Era ora" consultate il sito www.agidi.it 


visto al Teatro Filodrammatici il 20.XI.2010

lunedì 15 novembre 2010

IL POPOLO NON HA PANE? DIAMOGLI LE BRIOCHES!

IL POPOLO NON HA PANE? DIAMOGLI LE BRIOCHES!
regia e testo di Filippo Timi e Stefania De Santis
con: Filippo Timi (Amleto), Paola Fresa (Ofelia), Lucia Mascino, Marina Rocco e Luca Pignagnoli

"Siamo condannati a morte, tutti quanti; e allora godiamocela finché possiamo!"
Se Amleto potesse essere altro da sé cosa sceglierebbe di essere, chi, come ?
Di fronte a un dolore che fa impazzire cosa diventerebbe?
E se non fosse in grado di sopportare tutto quello che deriva dall'uccisione del padre, dal tradimento dello zio, dalla perdita di Ofelia?
Ma Amleto voleva proprio essere Amleto?
Nei nomi è chiuso il destino di ciascuno: Amleto subisce un destino che non vuole, responsabilità che non si assume, una maturità a cui è costretto ma a cui non è preparato.
Distruzione come segno di fallimento: Amleto demolisce tutto quello che lo circonda e che è perché non è capace di affrontarlo e di governarlo. 
Primo momento di attualità, l'inadeguatezza di un giovane come tanti che esplode nell'(auto)distruzione. Amleto, ragazzino viziato che vorrebbe proseguire la sua giovinezza in spensieratezza e seguendo le proprie pulsioni, si ritrova a ripudiare la madre in quanto viene meno alla funzione della figura femminile che rappresenta, e rifiuta Ofelia in quanto non è "capace di tutto questo amore". Ofelia è l'amore maturo, Amleto è ancora un bambino che insegue le soddisfazione dei propri istinti e delle proprie voglie. 
I personaggi - tutti - incontrano il Male, fanno amicizia con lui e da lì ha inizio la discesa verso i propri Inferi interiori.
Questo è l'Amleto secondo Filippo Timi, una rilettura originale perché porta in scena un divertimento a cui solitamente non è associato l'eroe scespiriano. Amleto mostra l'altra faccia: vorrebbe essere un eroe, ma fallisce.
Come Amleto, anche gli altri personaggi vorrebbero uscire dal ruolo che si sono costruiti e che li costringe a una continua finzione. Amleto si rifugia nella pazzia, ma è solo l'ennesima finzione e alla fine si uccide perdendo la partita con il Male. Ofelia diventa donna capace di un amore consapevole, furba per soddisfare i propri interessi, ma sconfitta quando si tratta di ottenere da Amleto quell'amore innocente e vero - che è il suo reale bisogno. E si uccide. Marylin è sopraffatta dalla sua stessa immagine di oca svampita, e si uccide. L'unica donna capace di cavalcare sempre le onde della vita adattandosi e reinventandosi è la madre di Amleto, che però in fondo appare schiava del bisogno di una presenza maschile (quindi morto il marito, sotto il cognato). E' l'unica che non si uccide, che riesce a frenare la sopraffazione soffocando la consapevolezza dell'errore nel vivere la propria vita orientata verso non si sa cosa. Viene uccisa da Amleto che distrugge il Male per estirparlo. 
Proprio le donne sono protagoniste di questo spettacolo per lo spazio che hanno, per l'influenza che hanno su Amleto, per la varietà delle tipologie che offrono (compresa una tragicomica Marylin che incarna il mito pop occidentale).
Attualissimo il monologo della donna che appare in scena seminuda portando la sua storia di cervello sedato dal ruolo di attricetta-col-bel-faccino, ruolo che ha accettato ma da cui ormai vorrebbe fuggire.
Lo spettacolo è di una cupezza angosciante, ossimoro delle aperte risate che provoca. "Ridere, è la risposta della coscienza alla tragedia? Ridere il pianto. Ridere la morte. Ridere l'abbandono. Ridere il tradimento. Ridere la follia. Ogni sentimento ha una bocca, e io voglio far ridere la bocca dei sentimenti! Ogni vita è lo specchio della vita".

Lo spettacolo vive di momenti di puro divertimento accentuati e moltiplicati dalle improvvisazioni in scena, dal dialogo con un pubblico caloroso, partecipe, VIVO! - che tanto si differenzia dal pubblico milanese che vuole essere intellettuale ma che alla fine risulta solo imbalsamato.
E' uno spettacolo che vive nel segno di Filippo Timi, e a questo punto non posso non sprecarmi nell'ennesima esaltazione dell'artista...e lasciamo passiamo oltre, senza curarcene, ai gridolini eccitati delle donnicciole in adolescenziale subbuglio ormonale.
Istrione, mattatore e guitto. Timi costruisce lo spettacolo dando a sè e agli altri attori lo spazio per improvvisare, divertirsi, giocare in scena, e lo fa non per vezzo autoreferenziale, ma coinvolgendo il pubblico, dandogli una parte all'interno della costruzione della scena. Si rivolge apertamente al pubblico, usa ogni movimento della platea per creare un dialogo. Non lo fa da attore comico, uscendo dalla scena e creando una parentesi nella storia, ma senza fermare mai l'azione inserisce nel canovaccio i cellulari che suonano, le risate, gli applausi.
Niente è lasciato al caso: i momenti di improvvisazione e di spazio al pubblico sono calcolati e stabiliti all'interno della struttura del testo. Prevalgono nella prima parte, poi si fanno sporadici: la risata iniziale traghetta alla tragedia finale, con lo straziante monologo di Ofelia morta, e la morte che inghiotte tutti.
Timi si dà, sul palcoscenico, con una verità, una vivdezza, un'autenticità, un'estrosità uniche. Passa dal registro comico a quello tragico con una velocità che disorienta.
Ora lo aspetteremo a marzo al Parenti con la nuova produzione!!!

visto al Teatro della Tosse di Genova il 13.XI.2010

mercoledì 10 novembre 2010

LA CASA DI RAMALLAH

LA CASA DI RAMALLAH
di Antonio Tarantino
regia di Antonio Calenda
con Giorgio Albertazzi, Marina Confalone e con Deniz Ozdogan


Cosa pensiamo quando sentiamo la notizia che un kamikaze si e' fatto esplodere in un luogo e in un orario di massimo affollamento? ...E se a saltare in aria e' una donna?
Forse non arriviamo a provare dell'odio, ma sicuramente non pensiamo di metterci nei suoi panni. I più liberali magari provano a capire quali motivazioni spingono un essere umano a un gesto cosi' violento, ma non c'e' via di comprensione - soprattutto nella nostra cultura, ormai arida di ideali per cui morire.
Questo spettacolo e' un viaggio ironico e tragico all'interno dei meccanismi concreti e idealistici di una scelta. Lo fa rappresentando una famiglia palestinese in viaggio su un treno interregionale "dove le porte dei cessi di seconda classe non si chiudono mai". In Palestina non ci sono treni, ma quel viaggio somiglia molto alle migrazioni nostrane. E come non riconoscersi nei battibecchi familiari tra marito e moglie, tra figlia e genitori?
Antonio Tarantino prima getta un ponte tra la nostra quotidianita' e la loro (ipotetica). Le fermate dell'interregionale (che ogni volta cambiano) diventano un viaggio onirico in luoghi immaginari e immaginati, evocati e sconosciuti; diventano un tormentone che fa sorridere, cosi' come la ripetizione di alcuni piatti tipici della cucina araba.
Il tono, pero', diventa sempre più triste, cupo, presagio della sventura che incombe sulla famiglia. Piano piano scopriamo la destinazione di questo viaggio. Rimaniamo scossi dai racconti della figlia, racconti di violenze sessuali, della fantomatica "Organizzazione" a cui aderire per avere dignita' sociale, di ordini da eseguire per conto dell'Organizzazione. Andare a morire con la stessa precisione con cui si va al lavoro.
Ormai la magia dell'immedesimazione e' avvenuta, e la tensione emotiva del pubblico e' al culmine nei momenti più drammatici: l'esplosione, e la caduta dall'alto di decine di panni vuoti, simbolo efficace delle vittime.
Lo spettacolo, nella replica che ho visto io, ha vissuto una dinamica particolare: per i primi venti minuti il pubblico e' stato gelido. La recitazione di Albertazzi ha messo a dura prova la voglia di comprendere del pubblico, il ritmo era lento, i dialoghi erano in realta' dei monologhi, la storia veniva presentata ritmicamente scandita come le stazioni ferroviarie dell'immaginario percorso del treno - ma anche come le stazioni di una via crucis.
Benche' il ritmo non decolli mai, all'interno delle pause e delle dilatazioni si trova lo spazio per abituarsi ai personaggi, per accogliere le loro storie, per avvicinarsi alla comprensione delle ragioni. Infine, per trovare una possibilita' di assoluzione (almeno nelle intenzioni) per chi comunque si rende responsabile di stragi ingiustificabili. A volte, pero', dimentichiamo che anche chi si fa esplodere e' un essere umano con un vissuto che non possiamo giudicare: allora e' più facile piangere per il destino di una universitaria incinta, senza che ci sia del buonismo o della retorica. Deniz Ozdogan interpreta questo personaggio dipingendolo con l'irruenza dei giovani, la maturita' critica degli adulti, il coraggio dei martiri, la dolcezza femminile di una donna violata e incinta.
L'altra figura femminile, quella della madre, e' interpretata con tanta morbidezza da Marina Confalone da vederci la madre-chioccia mediterranea, il vero perno della casa.
Il viaggio verso la Terra Promessa questa volta non ha un lieto fine: la casa a Ramallah rimarra' un sogno che i due genitori orfani della figlia non realizzeranno mai.
Alla fine il pubblico e' entusiasta, e le chiamate si sprecano.
Finalmente il teatro ha assolto alla sua funzione sociale principale: dare degli strumenti per comprendere la realta', spingere lo spettatore a interrogarsi. 

"Quando si esplode il tuo corpo si divide in un milione, in un miliardo di frammenti ciascuno dei quali, per una legge fisica, conserva le qualità nel tutto (...) Io, che ormai sono un miliardo di miliardi di particelle che vagano, vedo tutto e di tutto posso dar conto: e cioè che dio non esiste, che pace e guerra sono destinate a inseguirsi nel cerchio rovente del tempo, come si inseguono amore e odio, salute e malattia, giorno e notte, sole e pioggia, padri e figli, noi e loro, la loro storia e la nostra: e nessuno ha ragione, completamente ragione, né completamente torto" 
(da La casa di Ramallah di Antonio Tarantino) 

visto al Piccolo Teatro Studio il 5.XI.2010

venerdì 5 novembre 2010

ASSENTI PER SEMPRE

Spazio Tertulliano
ASSENTI PER SEMPRE
di e con Umberto Terruso
regia di Andrea Lapi


Come prendere un tema poco affrontato - il dramma dei desaparecidos - e trasformarlo in uno spettacolo ricco utilizzando un solo attore e pochissimi oggetti di scena.
Umberto Terruso ha realizzato un ottimo lavoro sia nell'ambito della drammaturgia che in quello della messinscena e infine dell'interpretazione.
Il testo, nella sua scorrevolezza e chiarezza, rivela, senza mai risultare didascalico, le fonti accurate su cui e' basato. Diventa, dunque, documento storico. L'intelligenza della drammaturgia sta nell'aver affrontato un dramma universale raccontandolo dal punto di vista soggettivo dei due protagonisti: la vittima cui fa da contraltare il carnefice. Questa struttura protagonista-antagonista velocizza il ritmo, senza mai un tempo morto ma sempre sostenuto e in grado di valorizzare i momenti più significativi della storia.
I personaggi sono costruiti in maniera efficace gia' nel testo, ma e' l'interpretazione di Terruso che li rende cosi' forti, cosi' emozionanti. Sa catturare il pubblico e tenere l'attenzione e la tensione per tutta la durata dello spettacolo. Si mette al servizio dei personaggi, riuscendo a far dimenticare di avere di fronte l'attore e a rendere veri i personaggi. Terruso ha lavorato sui dettagli, cosa decisamente non da poco. I dettagli dei personaggi, dall'abbigliamento al modo di parlare, di gesticolare, alla leggera incertezza nel parlare del soldato. E anche i dettagli degli oggetti utilizzati in scena, da manuale di recitazione: come usare reinventandoli sempre diversi dei semplici oggetti quotidiani. L'uso che ne fanno i personaggi associa agli oggetti tanti simboli, senza mai lasciarli "cadere" nell'insignificanza ma sfruttando la loro presenza in scena. (Guardatelo poi ditemi se non sono di effetto gli usi delle patate!).
Terruso sa trasmettere delle emozioni, cosa che oggi è difficile fare. Emoziona perché si emoziona, ma con la giusta misura, senza andare mai né sotto né sopra tono.
Uno spettacolo che riesce a commuovere.
Si parla di avvenimenti che risalgono al 1974, ma è l'occasione per gettare luce sull'inquietante situazione italiana contemporanea...

Andatelo a vedere perché vi porterete a casa delle belle riflessioni!!!

A CORPO MORTO

A CORPO MORTO
di e con Vittorio Franceschi
regia di Marco Sciaccaluga
maschere di Werner Strub


Vittorio Franceschi si insinua nel profondo delle emozioni e lo fa con tanta delicatezza che lo spettatore si trova scardinato senza essersene reso conto.
Si parla di morte, anzi peggio: di come "quelli che restano" reagiscono e si rapportano con la morte di una persona cara. Di fronte al senso di vuoto che ci schiaccia dovuto alla perdita, reagiamo non prendendo in considerazione la gamma di sentimenti che un evento simile potrebbe costringerci a scoprire in noi. Il rifiuto a volte e' una difesa.
Nella scena calda e spoglia, di un bianco avvolgente e morbido, interrotta da due alberi funestamente spogli, prendono corpo, voce, volto sei "sopravvissuti" che danno l'estremo saluto alla persona che li ha appena lasciati: un ragazzo congeda l'amica di cui era segretamente innamorato, una moglie il marito col quale ha condiviso una vita, un padre il figlio suicida, una figlia la madre unico punto di riferimento e infine un barbone il compagno di strada.
Franceschi crea i personaggi con le maschere create appositamente da Werner Strub, che e' il miglior mascheraio d'occidente - e si vede. Hanno una parte fondamentale nell'impatto emotivo del testo.
Con le sue maschere Franceschi si addentra nei tabu', nelle censure, nei muri dello spettatore fino a farne crollare le difese e a sciogliere quel blocco che si ha di fronte all'evento luttuoso. Lo fa dapprima in punta dei piedi, con simpatia, strappando anche una risata nel pubblico. Ma questo rapporto con la morte scava sempre di più nei sentimenti fino a scoprire il dolore più intenso della figlia e la beffa più triste nel barbone. Non si perde mai la misura di cio' che puo' essere rappresentato: il Capocomico dei Sei personaggi diceva "Qui siamo a teatro: la verita' fino a un certo punto!". In questo caso avrebbe avuto ragione: sarebbe troppo facile una riproduzione realistica della verita' dei sentimenti; avremmo avuto lamenti greci, pianti calabresi, elogi del defunto. Sulla scena si deve fare di più, a costo di risultare troppo colti e sublimi per essere verosimili. Peraltro i personaggi portano di fronte ai defunti delle crepuscolari urgenze quotidiane, come il mazzo di fiori rubato dal luogo dell'incidente di un altro morto e quindi portato via, o la moglie del sarto che ripercorre il perimetro di una casa diventata improvvisamente troppo grande. Sono proprio questi i dettagli che straziano: nell'ingiusta circostanza di un lutto familiare le persone più vicine al defunto mi dissero che la vera mancanza si sente nelle cose quotidiane.
Nella cornice delle storie il ragionatore ci costringe a pensare alla morte partendo dal senso che diamo alla vita. Uno dei personaggi dice: "E noi, ce l'abbiamo fatta?...Ma cosa dovevamo fare?!". Tutto il nostro correre alla fine ci portera' alla felicita'?
"MEGLIO AVERE MOLTO SOFFERTO CHE POCO AMATO".

visto al Tieffe Teatro Menotti il 4.XI.2010

mercoledì 3 novembre 2010

QUANDO L'ATTORE FA LA DIFFERENZA...

LETTERE A SILVANA
con Filippo Timi
al violino Rodrigo D'Erasmo


Un attore che entra in scena vestito di nero, si siede, prende in mano un microfono gelato e inizia a leggere grandi fogli su cui le parole sono stampate a caratteri ben leggibili. Scontato, banale.
Rischierebbe di esserlo, se su quei fogli non ci fossero le lettere che Pier Paolo Pasolini scrisse a Silvana Mauri. Lo sarebbe di sicuro, se a leggerle non fosse Filippo Timi.
La scena è sistemata in maniera da evocare lo scrittoio di un poeta nella propria camera; un musicista accompagna le parole di Pasolini ora evocando l'atmosfera emotiva in cui sono state scritte, ora sottolineando i passaggi narrativi (quasi elegiaci di alcuni passi), concitati, intimisti e intimi. L'insieme dà l'anacronistica sensazione ottocentesca del poeta, la scena mi ha ricordato l'ambientazione del dipinto "Morte di Marat" di Jacques Louis David. Una candela fa luce sulle zone d'ombra di una personalità complessa come quella dell'autore delle lettere. Una telecamera proietta il primo piano dell'attore che legge: è l'idea di come tutto possa essere visto, vissuto, giudicato da diversi punti di vista; di come lo stesso evento rimandi immagini diverse a seconda dell'angolatura da cui lo si osserva. Un po' pirandelliana, un po' cubista, questa candela ci è piaciuta.
Non mi addentro nelle sabbie mobili della presunzione di poter dire qualcosa di vagamente intelligente su Pasolini: abbandono la sfida per inferiorità manifesta. Per fortuna il teatro semina delle impressioni dentro a ogni spettatore indipendentemente dal suo livello culturale: la mia ignoranza mi ha impedito di cogliere la grandezza dell'intellettuale, il significato storico della sua opera, la rivoluzionarietà del suo pensiero. Mi è arrivata, invece, la complessità dell'uomo-Pasolini. I travagli interiori nella ricerca del coraggio e della sincerità di esprimere la sua vera personalità, quella che, lontana dai premi e dai blasoni, fa i conti con la difficoltà a liberarsi dai pregiudizi, dalle censure; che fa sempre i conti con l'affermazione della propria identità per quanto scandalo possa dare. Molto coinvolgente la lettera in cui Pasolini fa una sorta di bilancio della propria gioventù: degli errori commessi non rinnega nulla, ma dopo aver toccato il fondo può finalmente iniziare la risalita. Continuerà a commettere sbagli, ma non saranno gli stessi, in un'idea di evoluzione dinamica dell'individuo che non può procedere senza compiere passi falsi, ma che anche grazie a essi prosegue il proprio cammino.
Il destinatario delle lettere è Silvana Mauri, amica nel profondo di Pasolini. Ci sarebbe piaciuto sentir leggere dalla stessa voce anche le parole scritte da Silvana, ma ogni scelta artistica è soggettiva e va rispettata. Forse, nella sua presenza muta, questa figura di donna emerge in maniera ancora più forte, ancora più vitale. E' la donna che raccoglie e custodisce i frammenti di un "io" la cui sensibilità lo rende inquieto, frastagliato, impegnato in una ricerca affannata della felicità. Le parole che Pasolini scrive a Silvana rivelano le sue inquietudini e descrivono la capacità di accogliere un uomo nelle sue imperfezioni, nelle sue confidenze, nelle sue confessioni. Silvana viene descritta come l'unica persona alla quale Pasolini si rivela e si apre con sincerità; solo nell'amicizia con la donna lui sembra poter respirare.
Mi chiedo se i nostri rapporti hanno ancora la capacità di sperare di poter trovare una simile intesa, o se invece non si siano già inariditi nella doverosa ricerca della proprià felicità.

La medesima sensibilità lega Pasolini a Timi, di cui si intuiscono (e in parte si conoscono) i travagli interiori.
Nessuna voce poteva essere più indicata per comunicare le sfaccettature di una personalità. Quella di Timi è troppo irregolare per essere contenuta, cambia in continuazione, trovare una definizione è impossibile. La si intravvede nel suo stare in scena, nel suo rendere teatrale ogni gesto perchè ogni gesto assume significato e comunica una sensazione, un pensiero, uno stato interiore. La si intravvede nel suo darsi al personaggio, abbandonarsi a esso fino a dominarlo e diventare tutt'uno. La sua difficoltà, appena percepita, nel vedere e nel parlare crea pause inconsuete, sottolineature originali, dà un senso nuovo alle parole ed è motivo per trovare una nuova via, personalissima, di interpretazione. La sua voce particolarissima è uno strumento che suona dando colori diversi alle parole, creando un ulteriore livello di interpretazione più profondo.

Due piccole note stonate riferite al pubblico: l'essere invitato dalla  Direttrice ha fatto sentire il personaggio seduto nel pubblico in diritto di interrompere l'atmosfera per chiedere di abbassare la musica (coerentissimo accompagnamento). L'occhiataccia di Timi è stata eloquente, noi avremmo fatto anche di peggio. Non tutti ci conoscono per la nostra fama, ma tutti ricordano la nostra arroganza. Mi viene in mente Figline Valdarno, che alcuni Personaggi ricorderanno ancora...
La seconda nota stonata è per la signora seduta davanti a me: evidentemente aspettava messaggi molto importanti, se non è riuscita a evitare di usare il cellulare nemmeno per un'ora.
L'ultima osservazione è per la signora Shammah: ci fa molto piacere l'annuncio che il Teatro Franco Parenti sarà la "casa" di Filippo Timi; ci piace lo spazio che ospita spettacoli off come "Nemico di classe" o "Mea culpa", e dove si respira un'aria da comunità teatrale grazie alla presenza del bar e alla contemporaneità degli spettacoli che iniziano in orari scaglionati. Però che la signora non dica che nel suo teatro fa il tutto esaurito: sfrondato dai biglietti omaggio il pubblico pagante temo si riduca di molto.

visto al Teatro Franco Parenti il 2.XI.2010

giovedì 28 ottobre 2010

RACCONTO D'INVERNO

RACCONTO D'INVERNO
di Shakespeare
regia, traduzione, scene e costumi di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani
con Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Elena Russo Arman, Cristina Crippa, Corinna Agustoni, Luca Toracca, Gabriele Calindri, Federico Vanni, Nicola Stravalaci, Giuseppe Amato, Camilla Semino Favro, Umberto Petranca.

Nel Sogno scespiriano si era conclusa la stagione passata, nel Racconto d'inverno riparte la stagione nuova. La Compagnia dell'Elfo sceglie Shakespeare per inaugurare quella che ho definito "la seconda stagione più bella d'Italia" (la prima in assoluto e senza concorrenza e' quella del Piccolo!), e ne rispolvera il penultimo testo scritto, e uno dei meno rappresentati: "Racconto d'inverno", di cui curano anche una nuova traduzione.
La storia evoca due drammi ben più noti: "Otello" e "Romeo e Giulietta". Il re di Sicilia Leonte (Ferdinando Bruni), accecato dalla gelosia, accusa ingiustificatamente la moglie, la virtuosa Ermione (Elena Russo Arman) di tradirlo con il suo amico fraterno Polissene (Elio De Capitani). Le conseguenze sono sciagurate: Leonte ripudia la moglie, poi data per morta; perde il primogenito, fa uccidere la bambina appena nata creduta frutto del tradimento di Ermione con Polissene; perde l'onesto Camillo e il fedele Antigono. Più di tutti, perde la sua stessa vita, vissuta nell'alimentare un disprezzo verso la moglie simbolo delle donne (ovviamente viste tutte come peccatrici). Dopo 16 anni avvengono le agnizioni del caso e il lieto fine che differenzia questo Racconto dalla tragedia di Romeo e Giulietta: Leonte può tornare a vivere una vita piena insieme alla propria famiglia e all'amico di sempre. Il meglio della vita, però, è passato: allora conviene trarre insegnamento ed avere più giudizio nel ripudiare gli affetti più cari e nel lasciarsi sopraffare da pulsioni irrazionali. 
Al di là di questa facile morale ci piacciono piuttosto il ruolo che assumono le donne e i giovani: sono loro i vincitori, i portatori di giudizio, giustizia, integrità, innovazione. Nelle parole di Leonte risiede un odio verso le donne, che invece i fatti rivelano come superiori agli uomini. A loro sono affidate tutte le doti virtuose: in particolare la struttura della vicenda è fondata sull'azione di Ermione, di Paolina (nobil donna che non esita a rivolgersi al re in maniera cruda e violenta) e di Perdita, la principessa allevata come una contadina, in grado con la sua grazia e la sua determinazione a conquistare l'amore del principe figlio di Polissene e a difendere questo loro amore impossibile.
I giovani sono l'altro motore dell'azione: contro i padri ancorati nelle vecchie leggi dell'orgoglio e delle convenzioni sociali, la coppia di innamorati Perdita/Florizel riesce a raggiungere quello che è mancato a Romeo e Giulietta, quella pragmaticità che traduce in lotta concreta il loro romantico amore fino a renderli vincitori. Obbligano i loro padri a riconoscere i loro errori...e rimangono vivi, senza languire nel loro amore suicida.
Sul piano della realizzazione scenica devo dire che ho trovato il primo atto migliore del secondo. Anche qui siamo in presenza, anzi assenza di scena (leitmotiv di questa stagione): pochissimi oggetti tutti bianchi, su cui risaltano i bei costumi d'epoca. A questa eleganza semplice corrispondono le parole di Shakespeare recitate con uno stile moderno che le libera dal pericolo di risultare imbalsamate. 
Il secondo atto si apre con la bella scena di monologo del Tempo, davanti alle parrucche dai capelli bianchi indossate dai vari personaggi. Dopodiché compaiono ladri in abiti contemporanei, contadini con un accento che sarebbe simpatico a Bossi, l'esilarante accento siciliano di Nicola Stravalaci, e altri personaggi comici che danno vita a una serie di scene quasi grottesche. Per carità, Bruni-De Capitani hanno fatto delle scene di intermezzo comiche uno stile unico, e del resto si apprezza il loro lavoro di approfondimento di quelle scene che il più delle volte vengono tagliate, dimenticate, rappresentate in maniera superficiale (purtroppo non abbiamo ancora dimenticato la estenuante e inutile scena delle guardie siciliane nel "Molto rumore per nulla" di Lavia visto la scorsa stagione al Carcano). Qui, però, queste scene ci sono sembrate "troppo": troppo numerose, troppo frequenti (il secondo atto ha un montaggio cinematografico velocissimo), troppo grottesche.
Lo spettacolo è bello, a mio parere l'Elfo riesce sempre ad avvicinare il pubblico ai Classici in maniera originale e divertente. Ho apprezzato il rispetto che questa Compagnia dimostra verso il pubblico, presentando un lavoro accurato e approfondito. Ripeto sempre che lo scopo primario del teatro è comunicare con il pubblico: l'Elfo ci riesce ancora una volta!
Un piccolo appunto al pubblico: da dove viene questa nuova consuetudine di sprecare applausi a scena aperta a ogni scena? Dalla televisione, ovviamente. No comment in merito.

Andate a vederlo!

visto al Teatro Elfo Puccini - Sala Shakespeare il 19.X.2010

mercoledì 27 ottobre 2010

I BEATI ANNI DEL CASTIGO

I BEATI ANNI DEL CASTIGO
di Fleur Jaeggy
regia di Luca Ronconi
con Elena Ghiaurov, Federica Rosellini

Sono da sempre schierata tra i più convinti anti-ronconiani. Anzi, questo regista suscita delle vere e proprie invettive contro la recitazione illogica dei suoi attori, contro la lunghezza estenuante (che spesso sembra immotivata) dei suoi spettacoli, contro lo spreco del denaro pubblico investito per realizzare i suoi trastulli scenografici (che spesso sono il solo elemento memorabile dei suoi allestimenti); insomma contro il fatto che di tutti gli elementi che costituiscono il teatro (autore, testo, attore, pubblico e in ultimo - perché arrivato per ultimo - il regista) Ronconi salva solo il regista: tutto il resto sembra perdere di significato sotto le sue mani decostruttrici. L'impressione è che, dopo gli anni della ricerca di cui nessuno nega il valore, Ronconi si sia assestato nella citazione di se stesso, rimanendo chiuso in una forma che è sempre la medesima e che non assolve alla funzione primaria del teatro: comunicare al pubblico, con il pubblico.
"I beati anni del castigo" no, non è affatto autoreferenziale. Questo spettacolo comunica con il pubblico.
Si tratta di un monologo atipico: l'io narrante, donna adulta, ripercorre gli anni del collegio e della giovinezza vissuti nell'intensità del rapporto di amicizia con la compagna di collegio; una presenza muta, questa, ma talmente energica che risulta efficace più della parola.
La scena è spogliata di qualsiasi "trastullo" scenografico: è nuda, di un biancore luminosissimo quasi violento che fa da manicheistico contraltare alle oscure emozioni che animano le protagoniste. Lo spazio si astrae da qualunque connotazione quotidiana per universalizzarsi in un luogo dell'anima.
I minimali oggetti di scena (due sedie e un tavolino a margine della scena) e i costumi senza alcuna connotazione temporale che coprono le varie sfumature pastello dei grigi e dei beige, si stagliano su questo bianco nauseante creando immediatamente un'impressione di rigore, nitidezza, misura, eleganza, che permane per tutto lo spettacolo. Tutto è concertato in maniera precisa, chirurgica. La protagonista analizza in maniera autoptica le emozioni del passato: un percorso che deve necessariamente spogliarsi di qualunque trasporto emotivo per arrivare alla comprensione attraverso il distacco oggettivo.
E' questa motivazione interiore a rappresentare l'intenzione che giustifica quella recitazione altrove definita illogica, qui mai sembrata tanto ricca di senso. Merito dell'attrice rendere così corrispondenti le parole alla vita interiore del personaggio: Elena Ghiaurov tiene inchiodati, affascina con la sua capacità di portare lo spettatore dentro a questa storia in cui le cose importanti non vengono dette ma si leggono chiaramente tra le righe di un gesto, di uno sguardo. La sua recitazione riesce a esprimere chiaramente le motivazioni interiori di ogni singola parola: in ogni pausa, in ogni accento, in ogni tono la Ghiaurov dà espressione verbale precisa a un'emozione percepita chiaramente. 
Prima di vedere lo spettacolo avevo ascoltato un'intervista a Ronconi in cui affermava che "quello che conta in teatro è la parola, le immagini sono secondarie". Con questo spettacolo si offre un'altra interpretazione al Teatro di Parola, e ci ricorda che la bellezza dell'arte è esprimere secondo differenti stili uno stesso principio.

visto al Piccolo Teatro Studio il 23.X.2010

LA LOCANDIERA

LA LOCANDIERA
di Goldoni
regia di Pietro Carriglio
con Galatea Ranzi
Produzione Teatro Stabile di Palermo e Teatro Stabil di Catania

Al quindicesimo spettacolo è arrivato il pollice verso. Belli i costumi, per il resto non si ricorda nulla se non la noia lunga tre ore (tanta è la durata dello spettacolo). L'inizio stenta a decollare, quando subito appaiono in scena un Marchese di Forlipopoli (Nello Mascia) petulante e un Conte d'Albafiorita (Sergio Basile) caratterizzato come un Pulcinella dall'accento napoletano. In corso d'opera la situazione non migliora, anzi: il ritmo rimane lentissimo per tutto lo spettacolo, non un cambio di velocità, di intensità, non un crescendo che culmini con l'apice nelle scene principali. Le interpretazioni: sempre uguali a se stesse, non una variazione evolutiva nei personaggi. 
La scena appare spoglia, ma ci stiamo facendo l'abitudine: i registi nascondono dietro la giustificazione artistica del dare risalto alla Parola il fatto che quest'anno non ci sono i mezzi economici per realizzare delle scenografie all'altezza delle produzioni più blasonate. Quindi tutti sembrano essere approdati a una nuova fase espressiva: l'assenza di scenografia (sulla cui novità non è il caso di soffermarsi). 
Al posto del sipario un tulle che separa la scena lungo tutta la durata dello spettacolo. Se non si alza nemmeno alla fine, quando si scoprono le intenzioni e gli scopi dei personaggi, allora non simboleggiava la "verità velata". Viene quindi da domandarsi cosa significasse quel tulle.
Il problema è che proprio la regia è sembrata la grande assente in uno spettacolo, come questo, in cui dovrebbe essere fondamentale.
Dai cambi di scena che, se possibile, rallentavano un ritmo già da sbadiglio, alle intromissioni di altreculture (cosa ci faceva un senegalese suonatore di bonghi in una commedia rigorosamente ambientata nel Settecento?), la mano del regista non ha disegnato nulla. 
Purtroppo abbiamo percepito la stessa lacuna anche nell'impostazione dei personaggi: superficiale e stereotipata. Nemmeno Mirandolina è esclusa da questa caratterizzazione convenzionale. 
Sono convinta che per dare un senso alla messinscena di un classico bisogna rendere la verità interiore dei personaggi. E per arrivare alla verità bisogna scavare nei singoli personaggi e nei rapporti che si stabiliscono tra essi. Solo in questo modo è possibile scoprire la modernità di un autore come Goldoni, che era fine osservatore della società e che ha ritratto uomini e donne come ce ne sono ancora oggi, con gli stessi vizi, gli stessi sentimenti, le stesse dinamiche reciproche. Non sono idee mie, ma di Bosetti. 
Mancando questo lavoro di analisi manca il senso della modernità. 
Galatea Ranzi è un'attrice bravissima, ma qui la sua maniera e la sua bella vocalità appaiono finte. 
Uno spettacolo inutile, che è la peggior critica che si possa fare: non aggiunge niente ai precedenti 300 anni di rappresentazioni, non dà niente agli spettatori, nessuna interpretazione, nessuno spunto attuale.
Eppure ho letto critiche positive sui maggiori quotidiani nazionali. Mi viene da pensare che forse "non sta bene" parlare male del direttore di uno Stabile...
Si ha l'ennesima dimostrazione di come la forza di certi testi classici sia infallibile: qui si apprezzano alcune scene comiche, la costruzione del personaggio di Mirandolina, i rapporti tra alcune coppie di personaggi che rivelano una comicità intrinseca nella scrittura (Mirandolina-Fabrizio, Fabrizio-Cavaliere di Ripafratta, Marchese di Forlipopoli-Conte d'Albafiorita). Questo, però, è merito di Goldoni e della sua scrittura. A ben vedere gli unici meriti di questo spettacolo sono quelli del nostro autore che 300 anni fa ha scritto un capolavoro ancora oggi insuperabile.
Salviamo solo il Cavaliere di Ripafratta (Luca Lazzareschi): ironico, sottile, l'unico ad accennare ad un cambio di ritmo.

visto al Piccolo Teatro Strehler il 26.X.2010

lunedì 25 ottobre 2010

UN "NEMICO DI CLASSE" CONTRO IL NULLA DELLA NOSTRA SOCIETA'

Massimo Chiesa nel 2008 ha dato vita a una realtà che ha tutte le caratteristiche per far parlare di sé: The Kitchen Company, compagnia composta da 40 giovani attori diplomati nelle maggiori accademie italiane. Quasi per dare il buon augurio alla sua coraggiosa avventura e ai suoi attori ha scelto questo "Nemico di classe" che, a chi nel 1983 già c'era (fortunato lui), fa subito ritornare alla mente la messinscena di Elio De Capitani (che ne era anche il protagonista). Forse quello spettacolo divenne leggendario per quello che avvenne in seguito: i suoi interpreti hanno "sfondato". Tutti! Il cast era composto da giovani e sconosciuti attori: oltre a De Capitani, Claudio Bisio, Paolo Rossi, Antonio Catania, Sebastiano Filocamo, Riccardo Bini.
Anche oggi gli attori sono giovani e sconosciuti, e noi auguriamo loro la stessa carriera dei loro predecessori.
"Nemico di classe" è un testo che, allora come oggi, serve a gettare un fascio di luce sul disagio giovanile. In una casse di 5^ superiore, che in questo allestimento al Parenti si trasforma in un'arena con il pubblico disposto a distanza ravvicinata sui tre lati e allo stesso livello della scena, sei ragazzi disadattati aspettano l'arrivo dell'ennesimo professore (dopo aver fatto scappare tutti i precedenti). Rappresentano una gioventù fatta di bullismo e spacconeria, che per noia si dedica al crimine: nello spettacolo si accenna  agli atti vandalici del rumeno, ma in loro possiamo riconoscere gli autori delle violenze sul compagno down (che si filmano e si postano su you tube), degli stupri sulle coetanee, degli immigrati bruciati che popolano la cronaca nelle nostre città.
Dall'antipatia iniziale verso questi soggetti che sembrano responsabili del loro insuccesso, si passa piano piano alla volontà di comprendere il loro disagio: si intuisce che la colpa non è solo loro, che anzi, loro sono vittime di qualcosa. Del Nulla che ormai sembra essere l'orizzonte comune. In attesa del fantomatico professore i ragazzi decidono di farsi lezione da soli: si scoprono le loro fragilità, i loro drammi famigliari, la tenerezza che esprimono con l'aggressività ma che cela un disperato bisogno di essere aiutati, di abbandonarsi a una guida che dia loro gli strumenti per vivere una volta usciti dal mondo protetto della scuola. Dopo le comicissime lezioni che uno alla volta tengono sui più svariati argomenti (dal sesso al giardinaggio) si scatena la violenta lotta tra i due "capi": è una lotta simbolica tra il Nichilismo di chi non vede ormai più nessun futuro per la propria generazione e si affida alla legge della forza per ottenere il rispetto, e la Speranza di chi crede nella possibilità di andare oltre le condizioni di difficoltà e di miseria e di trovare dentro di sé i valori morali su cui impostare un futuro migliore. Al culmine della lotta finalmente si palesa l'Adulto, il professore, colui che dovrebbe aiutare i ragazzi nella crescita, ma che si dimostra inadeguato, distante, ottuso. Invece di sforzarsi di trovare un linguaggio comune ai ragazzi per comunicare con loro decide di abdicare al suo compito e di abbandonare i ragazzi al loro destino. 
Un messaggio chiaro alle istituzioni.

Qualche discontinuità tra gli attori, non tutti allo stesso livello - ma credibili e in grado di restituirci la verità delle persone e non degli stereotipi. Emergono in particolare Giovanni Prosperi (Kermit) e Luca Avagliano (Bago).
visto al Teatro Franco Parenti il 24.X.2010

www.thekitchencompany.it

video promo: http://www.youtube.com/watch?v=OPZ_0-0UjqI

The Kitchen Company
NEMICO DI CLASSE 
di Nigel Williams
regia di Massimo Chiesa
con Giovanni Prosperi, Luca Avagliano, Nicola Nicchi, Carlo Zanotti, Daniele Parisi, Gabriele Bajo.

domenica 24 ottobre 2010

Presentazioni

Buonasera agli amici che vivono di teatro!
Questo blog nasce dal desiderio di condividere le impressioni sugli spettacoli di cui sono spettatrice.
Benvenuti a tutti gli amici e colleghi che vorranno fare di questo spazio un luogo di confronto di opinioni, esperienze, pensieri, impressioni. Anzi, vi chiedo di scrivermi, di contraddirmi, di darmi la vostra opinione: non sono né una critica, né ho la maturità per avere un giudizio critico esatto!
"Theatre addicted" perché il teatro è la mia passione, il mio lavoro, la mia vita.