giovedì 28 ottobre 2010

RACCONTO D'INVERNO

RACCONTO D'INVERNO
di Shakespeare
regia, traduzione, scene e costumi di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani
con Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Elena Russo Arman, Cristina Crippa, Corinna Agustoni, Luca Toracca, Gabriele Calindri, Federico Vanni, Nicola Stravalaci, Giuseppe Amato, Camilla Semino Favro, Umberto Petranca.

Nel Sogno scespiriano si era conclusa la stagione passata, nel Racconto d'inverno riparte la stagione nuova. La Compagnia dell'Elfo sceglie Shakespeare per inaugurare quella che ho definito "la seconda stagione più bella d'Italia" (la prima in assoluto e senza concorrenza e' quella del Piccolo!), e ne rispolvera il penultimo testo scritto, e uno dei meno rappresentati: "Racconto d'inverno", di cui curano anche una nuova traduzione.
La storia evoca due drammi ben più noti: "Otello" e "Romeo e Giulietta". Il re di Sicilia Leonte (Ferdinando Bruni), accecato dalla gelosia, accusa ingiustificatamente la moglie, la virtuosa Ermione (Elena Russo Arman) di tradirlo con il suo amico fraterno Polissene (Elio De Capitani). Le conseguenze sono sciagurate: Leonte ripudia la moglie, poi data per morta; perde il primogenito, fa uccidere la bambina appena nata creduta frutto del tradimento di Ermione con Polissene; perde l'onesto Camillo e il fedele Antigono. Più di tutti, perde la sua stessa vita, vissuta nell'alimentare un disprezzo verso la moglie simbolo delle donne (ovviamente viste tutte come peccatrici). Dopo 16 anni avvengono le agnizioni del caso e il lieto fine che differenzia questo Racconto dalla tragedia di Romeo e Giulietta: Leonte può tornare a vivere una vita piena insieme alla propria famiglia e all'amico di sempre. Il meglio della vita, però, è passato: allora conviene trarre insegnamento ed avere più giudizio nel ripudiare gli affetti più cari e nel lasciarsi sopraffare da pulsioni irrazionali. 
Al di là di questa facile morale ci piacciono piuttosto il ruolo che assumono le donne e i giovani: sono loro i vincitori, i portatori di giudizio, giustizia, integrità, innovazione. Nelle parole di Leonte risiede un odio verso le donne, che invece i fatti rivelano come superiori agli uomini. A loro sono affidate tutte le doti virtuose: in particolare la struttura della vicenda è fondata sull'azione di Ermione, di Paolina (nobil donna che non esita a rivolgersi al re in maniera cruda e violenta) e di Perdita, la principessa allevata come una contadina, in grado con la sua grazia e la sua determinazione a conquistare l'amore del principe figlio di Polissene e a difendere questo loro amore impossibile.
I giovani sono l'altro motore dell'azione: contro i padri ancorati nelle vecchie leggi dell'orgoglio e delle convenzioni sociali, la coppia di innamorati Perdita/Florizel riesce a raggiungere quello che è mancato a Romeo e Giulietta, quella pragmaticità che traduce in lotta concreta il loro romantico amore fino a renderli vincitori. Obbligano i loro padri a riconoscere i loro errori...e rimangono vivi, senza languire nel loro amore suicida.
Sul piano della realizzazione scenica devo dire che ho trovato il primo atto migliore del secondo. Anche qui siamo in presenza, anzi assenza di scena (leitmotiv di questa stagione): pochissimi oggetti tutti bianchi, su cui risaltano i bei costumi d'epoca. A questa eleganza semplice corrispondono le parole di Shakespeare recitate con uno stile moderno che le libera dal pericolo di risultare imbalsamate. 
Il secondo atto si apre con la bella scena di monologo del Tempo, davanti alle parrucche dai capelli bianchi indossate dai vari personaggi. Dopodiché compaiono ladri in abiti contemporanei, contadini con un accento che sarebbe simpatico a Bossi, l'esilarante accento siciliano di Nicola Stravalaci, e altri personaggi comici che danno vita a una serie di scene quasi grottesche. Per carità, Bruni-De Capitani hanno fatto delle scene di intermezzo comiche uno stile unico, e del resto si apprezza il loro lavoro di approfondimento di quelle scene che il più delle volte vengono tagliate, dimenticate, rappresentate in maniera superficiale (purtroppo non abbiamo ancora dimenticato la estenuante e inutile scena delle guardie siciliane nel "Molto rumore per nulla" di Lavia visto la scorsa stagione al Carcano). Qui, però, queste scene ci sono sembrate "troppo": troppo numerose, troppo frequenti (il secondo atto ha un montaggio cinematografico velocissimo), troppo grottesche.
Lo spettacolo è bello, a mio parere l'Elfo riesce sempre ad avvicinare il pubblico ai Classici in maniera originale e divertente. Ho apprezzato il rispetto che questa Compagnia dimostra verso il pubblico, presentando un lavoro accurato e approfondito. Ripeto sempre che lo scopo primario del teatro è comunicare con il pubblico: l'Elfo ci riesce ancora una volta!
Un piccolo appunto al pubblico: da dove viene questa nuova consuetudine di sprecare applausi a scena aperta a ogni scena? Dalla televisione, ovviamente. No comment in merito.

Andate a vederlo!

visto al Teatro Elfo Puccini - Sala Shakespeare il 19.X.2010

mercoledì 27 ottobre 2010

I BEATI ANNI DEL CASTIGO

I BEATI ANNI DEL CASTIGO
di Fleur Jaeggy
regia di Luca Ronconi
con Elena Ghiaurov, Federica Rosellini

Sono da sempre schierata tra i più convinti anti-ronconiani. Anzi, questo regista suscita delle vere e proprie invettive contro la recitazione illogica dei suoi attori, contro la lunghezza estenuante (che spesso sembra immotivata) dei suoi spettacoli, contro lo spreco del denaro pubblico investito per realizzare i suoi trastulli scenografici (che spesso sono il solo elemento memorabile dei suoi allestimenti); insomma contro il fatto che di tutti gli elementi che costituiscono il teatro (autore, testo, attore, pubblico e in ultimo - perché arrivato per ultimo - il regista) Ronconi salva solo il regista: tutto il resto sembra perdere di significato sotto le sue mani decostruttrici. L'impressione è che, dopo gli anni della ricerca di cui nessuno nega il valore, Ronconi si sia assestato nella citazione di se stesso, rimanendo chiuso in una forma che è sempre la medesima e che non assolve alla funzione primaria del teatro: comunicare al pubblico, con il pubblico.
"I beati anni del castigo" no, non è affatto autoreferenziale. Questo spettacolo comunica con il pubblico.
Si tratta di un monologo atipico: l'io narrante, donna adulta, ripercorre gli anni del collegio e della giovinezza vissuti nell'intensità del rapporto di amicizia con la compagna di collegio; una presenza muta, questa, ma talmente energica che risulta efficace più della parola.
La scena è spogliata di qualsiasi "trastullo" scenografico: è nuda, di un biancore luminosissimo quasi violento che fa da manicheistico contraltare alle oscure emozioni che animano le protagoniste. Lo spazio si astrae da qualunque connotazione quotidiana per universalizzarsi in un luogo dell'anima.
I minimali oggetti di scena (due sedie e un tavolino a margine della scena) e i costumi senza alcuna connotazione temporale che coprono le varie sfumature pastello dei grigi e dei beige, si stagliano su questo bianco nauseante creando immediatamente un'impressione di rigore, nitidezza, misura, eleganza, che permane per tutto lo spettacolo. Tutto è concertato in maniera precisa, chirurgica. La protagonista analizza in maniera autoptica le emozioni del passato: un percorso che deve necessariamente spogliarsi di qualunque trasporto emotivo per arrivare alla comprensione attraverso il distacco oggettivo.
E' questa motivazione interiore a rappresentare l'intenzione che giustifica quella recitazione altrove definita illogica, qui mai sembrata tanto ricca di senso. Merito dell'attrice rendere così corrispondenti le parole alla vita interiore del personaggio: Elena Ghiaurov tiene inchiodati, affascina con la sua capacità di portare lo spettatore dentro a questa storia in cui le cose importanti non vengono dette ma si leggono chiaramente tra le righe di un gesto, di uno sguardo. La sua recitazione riesce a esprimere chiaramente le motivazioni interiori di ogni singola parola: in ogni pausa, in ogni accento, in ogni tono la Ghiaurov dà espressione verbale precisa a un'emozione percepita chiaramente. 
Prima di vedere lo spettacolo avevo ascoltato un'intervista a Ronconi in cui affermava che "quello che conta in teatro è la parola, le immagini sono secondarie". Con questo spettacolo si offre un'altra interpretazione al Teatro di Parola, e ci ricorda che la bellezza dell'arte è esprimere secondo differenti stili uno stesso principio.

visto al Piccolo Teatro Studio il 23.X.2010

LA LOCANDIERA

LA LOCANDIERA
di Goldoni
regia di Pietro Carriglio
con Galatea Ranzi
Produzione Teatro Stabile di Palermo e Teatro Stabil di Catania

Al quindicesimo spettacolo è arrivato il pollice verso. Belli i costumi, per il resto non si ricorda nulla se non la noia lunga tre ore (tanta è la durata dello spettacolo). L'inizio stenta a decollare, quando subito appaiono in scena un Marchese di Forlipopoli (Nello Mascia) petulante e un Conte d'Albafiorita (Sergio Basile) caratterizzato come un Pulcinella dall'accento napoletano. In corso d'opera la situazione non migliora, anzi: il ritmo rimane lentissimo per tutto lo spettacolo, non un cambio di velocità, di intensità, non un crescendo che culmini con l'apice nelle scene principali. Le interpretazioni: sempre uguali a se stesse, non una variazione evolutiva nei personaggi. 
La scena appare spoglia, ma ci stiamo facendo l'abitudine: i registi nascondono dietro la giustificazione artistica del dare risalto alla Parola il fatto che quest'anno non ci sono i mezzi economici per realizzare delle scenografie all'altezza delle produzioni più blasonate. Quindi tutti sembrano essere approdati a una nuova fase espressiva: l'assenza di scenografia (sulla cui novità non è il caso di soffermarsi). 
Al posto del sipario un tulle che separa la scena lungo tutta la durata dello spettacolo. Se non si alza nemmeno alla fine, quando si scoprono le intenzioni e gli scopi dei personaggi, allora non simboleggiava la "verità velata". Viene quindi da domandarsi cosa significasse quel tulle.
Il problema è che proprio la regia è sembrata la grande assente in uno spettacolo, come questo, in cui dovrebbe essere fondamentale.
Dai cambi di scena che, se possibile, rallentavano un ritmo già da sbadiglio, alle intromissioni di altreculture (cosa ci faceva un senegalese suonatore di bonghi in una commedia rigorosamente ambientata nel Settecento?), la mano del regista non ha disegnato nulla. 
Purtroppo abbiamo percepito la stessa lacuna anche nell'impostazione dei personaggi: superficiale e stereotipata. Nemmeno Mirandolina è esclusa da questa caratterizzazione convenzionale. 
Sono convinta che per dare un senso alla messinscena di un classico bisogna rendere la verità interiore dei personaggi. E per arrivare alla verità bisogna scavare nei singoli personaggi e nei rapporti che si stabiliscono tra essi. Solo in questo modo è possibile scoprire la modernità di un autore come Goldoni, che era fine osservatore della società e che ha ritratto uomini e donne come ce ne sono ancora oggi, con gli stessi vizi, gli stessi sentimenti, le stesse dinamiche reciproche. Non sono idee mie, ma di Bosetti. 
Mancando questo lavoro di analisi manca il senso della modernità. 
Galatea Ranzi è un'attrice bravissima, ma qui la sua maniera e la sua bella vocalità appaiono finte. 
Uno spettacolo inutile, che è la peggior critica che si possa fare: non aggiunge niente ai precedenti 300 anni di rappresentazioni, non dà niente agli spettatori, nessuna interpretazione, nessuno spunto attuale.
Eppure ho letto critiche positive sui maggiori quotidiani nazionali. Mi viene da pensare che forse "non sta bene" parlare male del direttore di uno Stabile...
Si ha l'ennesima dimostrazione di come la forza di certi testi classici sia infallibile: qui si apprezzano alcune scene comiche, la costruzione del personaggio di Mirandolina, i rapporti tra alcune coppie di personaggi che rivelano una comicità intrinseca nella scrittura (Mirandolina-Fabrizio, Fabrizio-Cavaliere di Ripafratta, Marchese di Forlipopoli-Conte d'Albafiorita). Questo, però, è merito di Goldoni e della sua scrittura. A ben vedere gli unici meriti di questo spettacolo sono quelli del nostro autore che 300 anni fa ha scritto un capolavoro ancora oggi insuperabile.
Salviamo solo il Cavaliere di Ripafratta (Luca Lazzareschi): ironico, sottile, l'unico ad accennare ad un cambio di ritmo.

visto al Piccolo Teatro Strehler il 26.X.2010

lunedì 25 ottobre 2010

UN "NEMICO DI CLASSE" CONTRO IL NULLA DELLA NOSTRA SOCIETA'

Massimo Chiesa nel 2008 ha dato vita a una realtà che ha tutte le caratteristiche per far parlare di sé: The Kitchen Company, compagnia composta da 40 giovani attori diplomati nelle maggiori accademie italiane. Quasi per dare il buon augurio alla sua coraggiosa avventura e ai suoi attori ha scelto questo "Nemico di classe" che, a chi nel 1983 già c'era (fortunato lui), fa subito ritornare alla mente la messinscena di Elio De Capitani (che ne era anche il protagonista). Forse quello spettacolo divenne leggendario per quello che avvenne in seguito: i suoi interpreti hanno "sfondato". Tutti! Il cast era composto da giovani e sconosciuti attori: oltre a De Capitani, Claudio Bisio, Paolo Rossi, Antonio Catania, Sebastiano Filocamo, Riccardo Bini.
Anche oggi gli attori sono giovani e sconosciuti, e noi auguriamo loro la stessa carriera dei loro predecessori.
"Nemico di classe" è un testo che, allora come oggi, serve a gettare un fascio di luce sul disagio giovanile. In una casse di 5^ superiore, che in questo allestimento al Parenti si trasforma in un'arena con il pubblico disposto a distanza ravvicinata sui tre lati e allo stesso livello della scena, sei ragazzi disadattati aspettano l'arrivo dell'ennesimo professore (dopo aver fatto scappare tutti i precedenti). Rappresentano una gioventù fatta di bullismo e spacconeria, che per noia si dedica al crimine: nello spettacolo si accenna  agli atti vandalici del rumeno, ma in loro possiamo riconoscere gli autori delle violenze sul compagno down (che si filmano e si postano su you tube), degli stupri sulle coetanee, degli immigrati bruciati che popolano la cronaca nelle nostre città.
Dall'antipatia iniziale verso questi soggetti che sembrano responsabili del loro insuccesso, si passa piano piano alla volontà di comprendere il loro disagio: si intuisce che la colpa non è solo loro, che anzi, loro sono vittime di qualcosa. Del Nulla che ormai sembra essere l'orizzonte comune. In attesa del fantomatico professore i ragazzi decidono di farsi lezione da soli: si scoprono le loro fragilità, i loro drammi famigliari, la tenerezza che esprimono con l'aggressività ma che cela un disperato bisogno di essere aiutati, di abbandonarsi a una guida che dia loro gli strumenti per vivere una volta usciti dal mondo protetto della scuola. Dopo le comicissime lezioni che uno alla volta tengono sui più svariati argomenti (dal sesso al giardinaggio) si scatena la violenta lotta tra i due "capi": è una lotta simbolica tra il Nichilismo di chi non vede ormai più nessun futuro per la propria generazione e si affida alla legge della forza per ottenere il rispetto, e la Speranza di chi crede nella possibilità di andare oltre le condizioni di difficoltà e di miseria e di trovare dentro di sé i valori morali su cui impostare un futuro migliore. Al culmine della lotta finalmente si palesa l'Adulto, il professore, colui che dovrebbe aiutare i ragazzi nella crescita, ma che si dimostra inadeguato, distante, ottuso. Invece di sforzarsi di trovare un linguaggio comune ai ragazzi per comunicare con loro decide di abdicare al suo compito e di abbandonare i ragazzi al loro destino. 
Un messaggio chiaro alle istituzioni.

Qualche discontinuità tra gli attori, non tutti allo stesso livello - ma credibili e in grado di restituirci la verità delle persone e non degli stereotipi. Emergono in particolare Giovanni Prosperi (Kermit) e Luca Avagliano (Bago).
visto al Teatro Franco Parenti il 24.X.2010

www.thekitchencompany.it

video promo: http://www.youtube.com/watch?v=OPZ_0-0UjqI

The Kitchen Company
NEMICO DI CLASSE 
di Nigel Williams
regia di Massimo Chiesa
con Giovanni Prosperi, Luca Avagliano, Nicola Nicchi, Carlo Zanotti, Daniele Parisi, Gabriele Bajo.

domenica 24 ottobre 2010

Presentazioni

Buonasera agli amici che vivono di teatro!
Questo blog nasce dal desiderio di condividere le impressioni sugli spettacoli di cui sono spettatrice.
Benvenuti a tutti gli amici e colleghi che vorranno fare di questo spazio un luogo di confronto di opinioni, esperienze, pensieri, impressioni. Anzi, vi chiedo di scrivermi, di contraddirmi, di darmi la vostra opinione: non sono né una critica, né ho la maturità per avere un giudizio critico esatto!
"Theatre addicted" perché il teatro è la mia passione, il mio lavoro, la mia vita.