lunedì 22 novembre 2010

LA SCUOLA DELLE MOGLI

LA SCUOLA DELLE MOGLI
di Molière
versione italiana e adattamento di Valter Malosti
regia di e con Valter Malosti
con: Mariano Pirrello, Valentina Virando, Giulia Cotugno, Marco Imparato, Fausto Caroli, Gianluca Gambino
Produzione Teatro di Dioniso e Teatro Stabile di Torino

Diciamolo subito: questo di Malosti è uno spettacolo fatto bene, intellettualmente onesto, coerente con l'istanza autoriale. La compagnia è nel complesso di discreto livello, ed è una rarità soprattutto in spettacoli, come questo, impostati sul capocomico-mattatore. Malosti si ritaglia questo ruolo, sicuramente qui ne è sempre all'altezza. 
E' la scelta di impostazione che non ci convince. O meglio, che contrasta vivamente con la nostra idea di messinscena di un classico. L'ambientazione gotica e grottesca ci piace, è un'idea originale applicata a La scuola delle mogli; ma in molti casi Malosti oltrepassa il limite dell'ortodossia. Se da un lato questo stile alla Tim Burton cattura immediatamente lo spettatore, alcune scelte allontanano un po' troppo dal testo: la colonna sonora costante, la vocalità sempre spinta e sempre urlata, l'accompagnamento alla chitarra di un Orace-cantastorie-cantautore, la contaminazione musicale con brani di Verdi, Gaber, Leo Ferré. I servi e Agnèse parlano ricorrendo a un grammelot di italiano e francesce divertentissimo, ma abusato. L'impressione è che tutte le trovate siano utilizzate troppo a lungo e in troppe occasioni. Un assoluto e indiscutibile pollice verso per due trovate: la rappata di Agnèse che racconta il primo incontro con Orace, e il decalogo della buona moglie letto da un'improbabile suora vestita alla maniera di Lady Gaga, che improvvisamente rimane (quasi) nuda alla maniera delle ballerine del Moulin Rouge (forse meno raffinata). Decisamente trash, povero Molière.
Gli attori, abbiamo detto, sono di discreto livello. Agnèse si presenta come una bambolottona ingenua in stile Alice nel paese delle meraviglie, e ci convince più di quando invece mostra la sua maturità nell'autodeterminazione del proprio destino mostrandosi più intelligente e consapevole di quanto Arnolphe non credesse. Il personaggio di Arnolphe viaggia per tutto lo spettacolo su un livello psicologico superficiale ed esteriore - comunque sempre coerente con l'impostazione della messinscena. Ci piace molto di più alla fine, quando mostra una verità dei sentimenti nel momento in cui la sua passione inaspettata lo fa vacillare nel suo proposito di prevaricazione. Per passione, quella che scopre di provare per Agnèse, si trasforma in un altro uomo. E questo è quello che l'amore dovrebbe provocare in tutti gli uomini (e le donne).
Rimaniamo comunque dell'idea che questi divertissement non si addicano a un testo come questo, che andrebbe affrontato con il rigore che merita. Si può essere moderni anche senza traslare la Parola in altre dimensioni incongrue. Questo, inoltre, è un testo che possiede una modernità insita nelle parole: il dramma di un marito geloso, con un'attualità che ci racconta quasi quotidianamente di violenze di vario genere sulle donne e di omicidi per moventi di gelosia. Agnèse, così innocente, rivela una donna matura che decide del proprio destino: se non è moderna questa evoluzione...
Un pregio di questo spettacolo, da non sottovalutare: trova una chiave originale ed efficace per far arrivare un testo classico al pubblico, e c'è bisogno di un ponte tra autori e spettatori.

Link al video dello spettacolo: http://www.youtube.com/watch?v=hLe0IfDGIgw

visto al Teatro Franco Parenti il 17.XI.2010

domenica 21 novembre 2010

TANTE RISATE CON COLPO DI SCENA (AGRODOLCE)


ERA ORA
di Alessandra Scotti
regia di Corrado Accordino
con Silvana Fallisi e Alfredo Colina


Lei entra in bagno, si dà una sistematina e quando esce dimentica l'anello sul lavandino. Lui entra in bagno dopo di lei, quando esce trova l'anello, ma goffamente lo fa scivolare nello scarico. Lei torna indietro alla ricerca dell'anello, si convince che lui glielo abbia rubato e lo "rapisce" (chiude a chiave la porta del bagno impedendogli di uscire). Lei è una donna tanto bella quanto singolare, lui è il classico uomo goffo che ha soggezione di fronte a una donna che tiene in mano la situazione. Uno sfigato, praticamente.
Inizia un susseguirsi di situazioni comiche date dai giochi di parole, dagli equivoci, dalle reazioni che l'uno provoca nell'altra e viceversa. Soprattutto, date da una struttura drammaturgica basata sulla sospensione e la divagazione, con giochi di ruoli, rottura della famigerata quarta parete (anzi vera e propria apertura, dato che il personaggio femminile mima l'azione di aprire una cerniera), situazioni quasi oniriche per il mescolarsi di personaggi che non hanno apparente attinenza con la storia.
Tra risate, applausi (troppi, al limite della sopportazione: bisognerebbe creare un corso di educazione del pubblico per far capire agli spettatori che non si trovano in uno studio televisivo. Abbiamo già sottolineato questa infelice tendenza del pubblico, stasera abbiamo superato ogni limite con un applauso scrosciante sull'apertura del sipario), momenti comici (alcune divagazioni sono esilaranti, come quella sul chakra), il pubblico aspetta la spiegazione dei fatti e la riconciliazione finale, e invece...
Corrado Accordino, regista evidentemente ispirato dal rovesciamento dell'aspettativa (ricordiamo la messinscena de La cosmetica del nemico di Amélie Nothomb), mette in scena un finale spiazzante: tutta la vicenda è il frutto dell'immaginazione del personaggio maschile. Dopo un monologo in cui sottolinea l'indifferenza reciproca che regola i rapporti che quotidianamente intrecciamo con le persone che incontriamo, capiamo che il desiderio di un uomo solo e disilluso di stabilire un contatto umano autentico con chi lo circonda è così intenso da fagli immaginare di interagire con la donna incontrata in bagno. 
Scopriamo così che a teatro si può ridere (e tanto, come in questo caso), e si può farlo non rinunciando all'intelligenza, ma anzi veicolando attraverso il riso considerazioni amarissime come quelle sulle nostre relazioni sociali inaridite. 
Il tema richiama quella "incomunicabilità" già fulcro del Teatro dell'Assurdo; ma qui, invece che prendere un testo di Beckett (che riconosciamo come Classico) e forzarlo per renderlo aderente alla nostra attualità, si è scelto un testo nuovo di una giovane drammaturga. 
Lo spettacolo è spassoso: gli attori sono in parte, la Fallisi è padrona della scena, le scelte registiche (dalla scenografia alle musiche) sono fortunate. Si potrebbe addirittura spingere ancora di più questa caratteristica spiazzante e approfondire un tema così urgente in questo periodo storico.
Purtroppo oggi, 21 novembre, è l'ultima replica ai Filodrammatici e lo spettacolo ha vissuto tre settimane di presenza in cartellone nell'assoluta indifferenza dei critici, che evidentemente hanno snobbato un prodotto comico ancorati al pregiudizio che il teatro comico equivalga al cabaret (magari anche fatto male). Questa è una gravissima mancanza da parte di chi, come il critico, è chiamato (o almeno dovrebbe esserlo) a fornire agli spettatori degli strumenti per scegliere, interpretare, apprezzare. Invece notiamo una tendenza a indirizzare il pubblico verso i prodotti commerciali, o, ancora peggio, verso prodotti di dubbio valore artistico e culturale, che rappresentano solo l'infatuazione senile di alcuni critici ormai in età ampiamente pensionabile nei confronti di una giovinezza che non verrà loro restituita. Mi riferisco a Franco Quadri e Gianfranco Berardi, e chi è stato al Litta alla prima di Land lover capisce (e forse condivide).
Forse se la comunità teatrale la smettesse di considerarsi divisa in settori e iniziasse a dialogare e a contaminarsi si potrebbe superare meglio e più in fretta questa crisi. Ma, come ci mostrano i due protagonisti della pièce, gli uomini non comunicano, non entrano in contatto tra di loro, non dialogano realmente. 

Se avrete l'occasione di vedere questo spettacolo in altre piazze vi consiglio di non perdervelo.
Per la tournée di "Era ora" consultate il sito www.agidi.it 


visto al Teatro Filodrammatici il 20.XI.2010

lunedì 15 novembre 2010

IL POPOLO NON HA PANE? DIAMOGLI LE BRIOCHES!

IL POPOLO NON HA PANE? DIAMOGLI LE BRIOCHES!
regia e testo di Filippo Timi e Stefania De Santis
con: Filippo Timi (Amleto), Paola Fresa (Ofelia), Lucia Mascino, Marina Rocco e Luca Pignagnoli

"Siamo condannati a morte, tutti quanti; e allora godiamocela finché possiamo!"
Se Amleto potesse essere altro da sé cosa sceglierebbe di essere, chi, come ?
Di fronte a un dolore che fa impazzire cosa diventerebbe?
E se non fosse in grado di sopportare tutto quello che deriva dall'uccisione del padre, dal tradimento dello zio, dalla perdita di Ofelia?
Ma Amleto voleva proprio essere Amleto?
Nei nomi è chiuso il destino di ciascuno: Amleto subisce un destino che non vuole, responsabilità che non si assume, una maturità a cui è costretto ma a cui non è preparato.
Distruzione come segno di fallimento: Amleto demolisce tutto quello che lo circonda e che è perché non è capace di affrontarlo e di governarlo. 
Primo momento di attualità, l'inadeguatezza di un giovane come tanti che esplode nell'(auto)distruzione. Amleto, ragazzino viziato che vorrebbe proseguire la sua giovinezza in spensieratezza e seguendo le proprie pulsioni, si ritrova a ripudiare la madre in quanto viene meno alla funzione della figura femminile che rappresenta, e rifiuta Ofelia in quanto non è "capace di tutto questo amore". Ofelia è l'amore maturo, Amleto è ancora un bambino che insegue le soddisfazione dei propri istinti e delle proprie voglie. 
I personaggi - tutti - incontrano il Male, fanno amicizia con lui e da lì ha inizio la discesa verso i propri Inferi interiori.
Questo è l'Amleto secondo Filippo Timi, una rilettura originale perché porta in scena un divertimento a cui solitamente non è associato l'eroe scespiriano. Amleto mostra l'altra faccia: vorrebbe essere un eroe, ma fallisce.
Come Amleto, anche gli altri personaggi vorrebbero uscire dal ruolo che si sono costruiti e che li costringe a una continua finzione. Amleto si rifugia nella pazzia, ma è solo l'ennesima finzione e alla fine si uccide perdendo la partita con il Male. Ofelia diventa donna capace di un amore consapevole, furba per soddisfare i propri interessi, ma sconfitta quando si tratta di ottenere da Amleto quell'amore innocente e vero - che è il suo reale bisogno. E si uccide. Marylin è sopraffatta dalla sua stessa immagine di oca svampita, e si uccide. L'unica donna capace di cavalcare sempre le onde della vita adattandosi e reinventandosi è la madre di Amleto, che però in fondo appare schiava del bisogno di una presenza maschile (quindi morto il marito, sotto il cognato). E' l'unica che non si uccide, che riesce a frenare la sopraffazione soffocando la consapevolezza dell'errore nel vivere la propria vita orientata verso non si sa cosa. Viene uccisa da Amleto che distrugge il Male per estirparlo. 
Proprio le donne sono protagoniste di questo spettacolo per lo spazio che hanno, per l'influenza che hanno su Amleto, per la varietà delle tipologie che offrono (compresa una tragicomica Marylin che incarna il mito pop occidentale).
Attualissimo il monologo della donna che appare in scena seminuda portando la sua storia di cervello sedato dal ruolo di attricetta-col-bel-faccino, ruolo che ha accettato ma da cui ormai vorrebbe fuggire.
Lo spettacolo è di una cupezza angosciante, ossimoro delle aperte risate che provoca. "Ridere, è la risposta della coscienza alla tragedia? Ridere il pianto. Ridere la morte. Ridere l'abbandono. Ridere il tradimento. Ridere la follia. Ogni sentimento ha una bocca, e io voglio far ridere la bocca dei sentimenti! Ogni vita è lo specchio della vita".

Lo spettacolo vive di momenti di puro divertimento accentuati e moltiplicati dalle improvvisazioni in scena, dal dialogo con un pubblico caloroso, partecipe, VIVO! - che tanto si differenzia dal pubblico milanese che vuole essere intellettuale ma che alla fine risulta solo imbalsamato.
E' uno spettacolo che vive nel segno di Filippo Timi, e a questo punto non posso non sprecarmi nell'ennesima esaltazione dell'artista...e lasciamo passiamo oltre, senza curarcene, ai gridolini eccitati delle donnicciole in adolescenziale subbuglio ormonale.
Istrione, mattatore e guitto. Timi costruisce lo spettacolo dando a sè e agli altri attori lo spazio per improvvisare, divertirsi, giocare in scena, e lo fa non per vezzo autoreferenziale, ma coinvolgendo il pubblico, dandogli una parte all'interno della costruzione della scena. Si rivolge apertamente al pubblico, usa ogni movimento della platea per creare un dialogo. Non lo fa da attore comico, uscendo dalla scena e creando una parentesi nella storia, ma senza fermare mai l'azione inserisce nel canovaccio i cellulari che suonano, le risate, gli applausi.
Niente è lasciato al caso: i momenti di improvvisazione e di spazio al pubblico sono calcolati e stabiliti all'interno della struttura del testo. Prevalgono nella prima parte, poi si fanno sporadici: la risata iniziale traghetta alla tragedia finale, con lo straziante monologo di Ofelia morta, e la morte che inghiotte tutti.
Timi si dà, sul palcoscenico, con una verità, una vivdezza, un'autenticità, un'estrosità uniche. Passa dal registro comico a quello tragico con una velocità che disorienta.
Ora lo aspetteremo a marzo al Parenti con la nuova produzione!!!

visto al Teatro della Tosse di Genova il 13.XI.2010

mercoledì 10 novembre 2010

LA CASA DI RAMALLAH

LA CASA DI RAMALLAH
di Antonio Tarantino
regia di Antonio Calenda
con Giorgio Albertazzi, Marina Confalone e con Deniz Ozdogan


Cosa pensiamo quando sentiamo la notizia che un kamikaze si e' fatto esplodere in un luogo e in un orario di massimo affollamento? ...E se a saltare in aria e' una donna?
Forse non arriviamo a provare dell'odio, ma sicuramente non pensiamo di metterci nei suoi panni. I più liberali magari provano a capire quali motivazioni spingono un essere umano a un gesto cosi' violento, ma non c'e' via di comprensione - soprattutto nella nostra cultura, ormai arida di ideali per cui morire.
Questo spettacolo e' un viaggio ironico e tragico all'interno dei meccanismi concreti e idealistici di una scelta. Lo fa rappresentando una famiglia palestinese in viaggio su un treno interregionale "dove le porte dei cessi di seconda classe non si chiudono mai". In Palestina non ci sono treni, ma quel viaggio somiglia molto alle migrazioni nostrane. E come non riconoscersi nei battibecchi familiari tra marito e moglie, tra figlia e genitori?
Antonio Tarantino prima getta un ponte tra la nostra quotidianita' e la loro (ipotetica). Le fermate dell'interregionale (che ogni volta cambiano) diventano un viaggio onirico in luoghi immaginari e immaginati, evocati e sconosciuti; diventano un tormentone che fa sorridere, cosi' come la ripetizione di alcuni piatti tipici della cucina araba.
Il tono, pero', diventa sempre più triste, cupo, presagio della sventura che incombe sulla famiglia. Piano piano scopriamo la destinazione di questo viaggio. Rimaniamo scossi dai racconti della figlia, racconti di violenze sessuali, della fantomatica "Organizzazione" a cui aderire per avere dignita' sociale, di ordini da eseguire per conto dell'Organizzazione. Andare a morire con la stessa precisione con cui si va al lavoro.
Ormai la magia dell'immedesimazione e' avvenuta, e la tensione emotiva del pubblico e' al culmine nei momenti più drammatici: l'esplosione, e la caduta dall'alto di decine di panni vuoti, simbolo efficace delle vittime.
Lo spettacolo, nella replica che ho visto io, ha vissuto una dinamica particolare: per i primi venti minuti il pubblico e' stato gelido. La recitazione di Albertazzi ha messo a dura prova la voglia di comprendere del pubblico, il ritmo era lento, i dialoghi erano in realta' dei monologhi, la storia veniva presentata ritmicamente scandita come le stazioni ferroviarie dell'immaginario percorso del treno - ma anche come le stazioni di una via crucis.
Benche' il ritmo non decolli mai, all'interno delle pause e delle dilatazioni si trova lo spazio per abituarsi ai personaggi, per accogliere le loro storie, per avvicinarsi alla comprensione delle ragioni. Infine, per trovare una possibilita' di assoluzione (almeno nelle intenzioni) per chi comunque si rende responsabile di stragi ingiustificabili. A volte, pero', dimentichiamo che anche chi si fa esplodere e' un essere umano con un vissuto che non possiamo giudicare: allora e' più facile piangere per il destino di una universitaria incinta, senza che ci sia del buonismo o della retorica. Deniz Ozdogan interpreta questo personaggio dipingendolo con l'irruenza dei giovani, la maturita' critica degli adulti, il coraggio dei martiri, la dolcezza femminile di una donna violata e incinta.
L'altra figura femminile, quella della madre, e' interpretata con tanta morbidezza da Marina Confalone da vederci la madre-chioccia mediterranea, il vero perno della casa.
Il viaggio verso la Terra Promessa questa volta non ha un lieto fine: la casa a Ramallah rimarra' un sogno che i due genitori orfani della figlia non realizzeranno mai.
Alla fine il pubblico e' entusiasta, e le chiamate si sprecano.
Finalmente il teatro ha assolto alla sua funzione sociale principale: dare degli strumenti per comprendere la realta', spingere lo spettatore a interrogarsi. 

"Quando si esplode il tuo corpo si divide in un milione, in un miliardo di frammenti ciascuno dei quali, per una legge fisica, conserva le qualità nel tutto (...) Io, che ormai sono un miliardo di miliardi di particelle che vagano, vedo tutto e di tutto posso dar conto: e cioè che dio non esiste, che pace e guerra sono destinate a inseguirsi nel cerchio rovente del tempo, come si inseguono amore e odio, salute e malattia, giorno e notte, sole e pioggia, padri e figli, noi e loro, la loro storia e la nostra: e nessuno ha ragione, completamente ragione, né completamente torto" 
(da La casa di Ramallah di Antonio Tarantino) 

visto al Piccolo Teatro Studio il 5.XI.2010

venerdì 5 novembre 2010

ASSENTI PER SEMPRE

Spazio Tertulliano
ASSENTI PER SEMPRE
di e con Umberto Terruso
regia di Andrea Lapi


Come prendere un tema poco affrontato - il dramma dei desaparecidos - e trasformarlo in uno spettacolo ricco utilizzando un solo attore e pochissimi oggetti di scena.
Umberto Terruso ha realizzato un ottimo lavoro sia nell'ambito della drammaturgia che in quello della messinscena e infine dell'interpretazione.
Il testo, nella sua scorrevolezza e chiarezza, rivela, senza mai risultare didascalico, le fonti accurate su cui e' basato. Diventa, dunque, documento storico. L'intelligenza della drammaturgia sta nell'aver affrontato un dramma universale raccontandolo dal punto di vista soggettivo dei due protagonisti: la vittima cui fa da contraltare il carnefice. Questa struttura protagonista-antagonista velocizza il ritmo, senza mai un tempo morto ma sempre sostenuto e in grado di valorizzare i momenti più significativi della storia.
I personaggi sono costruiti in maniera efficace gia' nel testo, ma e' l'interpretazione di Terruso che li rende cosi' forti, cosi' emozionanti. Sa catturare il pubblico e tenere l'attenzione e la tensione per tutta la durata dello spettacolo. Si mette al servizio dei personaggi, riuscendo a far dimenticare di avere di fronte l'attore e a rendere veri i personaggi. Terruso ha lavorato sui dettagli, cosa decisamente non da poco. I dettagli dei personaggi, dall'abbigliamento al modo di parlare, di gesticolare, alla leggera incertezza nel parlare del soldato. E anche i dettagli degli oggetti utilizzati in scena, da manuale di recitazione: come usare reinventandoli sempre diversi dei semplici oggetti quotidiani. L'uso che ne fanno i personaggi associa agli oggetti tanti simboli, senza mai lasciarli "cadere" nell'insignificanza ma sfruttando la loro presenza in scena. (Guardatelo poi ditemi se non sono di effetto gli usi delle patate!).
Terruso sa trasmettere delle emozioni, cosa che oggi è difficile fare. Emoziona perché si emoziona, ma con la giusta misura, senza andare mai né sotto né sopra tono.
Uno spettacolo che riesce a commuovere.
Si parla di avvenimenti che risalgono al 1974, ma è l'occasione per gettare luce sull'inquietante situazione italiana contemporanea...

Andatelo a vedere perché vi porterete a casa delle belle riflessioni!!!

A CORPO MORTO

A CORPO MORTO
di e con Vittorio Franceschi
regia di Marco Sciaccaluga
maschere di Werner Strub


Vittorio Franceschi si insinua nel profondo delle emozioni e lo fa con tanta delicatezza che lo spettatore si trova scardinato senza essersene reso conto.
Si parla di morte, anzi peggio: di come "quelli che restano" reagiscono e si rapportano con la morte di una persona cara. Di fronte al senso di vuoto che ci schiaccia dovuto alla perdita, reagiamo non prendendo in considerazione la gamma di sentimenti che un evento simile potrebbe costringerci a scoprire in noi. Il rifiuto a volte e' una difesa.
Nella scena calda e spoglia, di un bianco avvolgente e morbido, interrotta da due alberi funestamente spogli, prendono corpo, voce, volto sei "sopravvissuti" che danno l'estremo saluto alla persona che li ha appena lasciati: un ragazzo congeda l'amica di cui era segretamente innamorato, una moglie il marito col quale ha condiviso una vita, un padre il figlio suicida, una figlia la madre unico punto di riferimento e infine un barbone il compagno di strada.
Franceschi crea i personaggi con le maschere create appositamente da Werner Strub, che e' il miglior mascheraio d'occidente - e si vede. Hanno una parte fondamentale nell'impatto emotivo del testo.
Con le sue maschere Franceschi si addentra nei tabu', nelle censure, nei muri dello spettatore fino a farne crollare le difese e a sciogliere quel blocco che si ha di fronte all'evento luttuoso. Lo fa dapprima in punta dei piedi, con simpatia, strappando anche una risata nel pubblico. Ma questo rapporto con la morte scava sempre di più nei sentimenti fino a scoprire il dolore più intenso della figlia e la beffa più triste nel barbone. Non si perde mai la misura di cio' che puo' essere rappresentato: il Capocomico dei Sei personaggi diceva "Qui siamo a teatro: la verita' fino a un certo punto!". In questo caso avrebbe avuto ragione: sarebbe troppo facile una riproduzione realistica della verita' dei sentimenti; avremmo avuto lamenti greci, pianti calabresi, elogi del defunto. Sulla scena si deve fare di più, a costo di risultare troppo colti e sublimi per essere verosimili. Peraltro i personaggi portano di fronte ai defunti delle crepuscolari urgenze quotidiane, come il mazzo di fiori rubato dal luogo dell'incidente di un altro morto e quindi portato via, o la moglie del sarto che ripercorre il perimetro di una casa diventata improvvisamente troppo grande. Sono proprio questi i dettagli che straziano: nell'ingiusta circostanza di un lutto familiare le persone più vicine al defunto mi dissero che la vera mancanza si sente nelle cose quotidiane.
Nella cornice delle storie il ragionatore ci costringe a pensare alla morte partendo dal senso che diamo alla vita. Uno dei personaggi dice: "E noi, ce l'abbiamo fatta?...Ma cosa dovevamo fare?!". Tutto il nostro correre alla fine ci portera' alla felicita'?
"MEGLIO AVERE MOLTO SOFFERTO CHE POCO AMATO".

visto al Tieffe Teatro Menotti il 4.XI.2010

mercoledì 3 novembre 2010

QUANDO L'ATTORE FA LA DIFFERENZA...

LETTERE A SILVANA
con Filippo Timi
al violino Rodrigo D'Erasmo


Un attore che entra in scena vestito di nero, si siede, prende in mano un microfono gelato e inizia a leggere grandi fogli su cui le parole sono stampate a caratteri ben leggibili. Scontato, banale.
Rischierebbe di esserlo, se su quei fogli non ci fossero le lettere che Pier Paolo Pasolini scrisse a Silvana Mauri. Lo sarebbe di sicuro, se a leggerle non fosse Filippo Timi.
La scena è sistemata in maniera da evocare lo scrittoio di un poeta nella propria camera; un musicista accompagna le parole di Pasolini ora evocando l'atmosfera emotiva in cui sono state scritte, ora sottolineando i passaggi narrativi (quasi elegiaci di alcuni passi), concitati, intimisti e intimi. L'insieme dà l'anacronistica sensazione ottocentesca del poeta, la scena mi ha ricordato l'ambientazione del dipinto "Morte di Marat" di Jacques Louis David. Una candela fa luce sulle zone d'ombra di una personalità complessa come quella dell'autore delle lettere. Una telecamera proietta il primo piano dell'attore che legge: è l'idea di come tutto possa essere visto, vissuto, giudicato da diversi punti di vista; di come lo stesso evento rimandi immagini diverse a seconda dell'angolatura da cui lo si osserva. Un po' pirandelliana, un po' cubista, questa candela ci è piaciuta.
Non mi addentro nelle sabbie mobili della presunzione di poter dire qualcosa di vagamente intelligente su Pasolini: abbandono la sfida per inferiorità manifesta. Per fortuna il teatro semina delle impressioni dentro a ogni spettatore indipendentemente dal suo livello culturale: la mia ignoranza mi ha impedito di cogliere la grandezza dell'intellettuale, il significato storico della sua opera, la rivoluzionarietà del suo pensiero. Mi è arrivata, invece, la complessità dell'uomo-Pasolini. I travagli interiori nella ricerca del coraggio e della sincerità di esprimere la sua vera personalità, quella che, lontana dai premi e dai blasoni, fa i conti con la difficoltà a liberarsi dai pregiudizi, dalle censure; che fa sempre i conti con l'affermazione della propria identità per quanto scandalo possa dare. Molto coinvolgente la lettera in cui Pasolini fa una sorta di bilancio della propria gioventù: degli errori commessi non rinnega nulla, ma dopo aver toccato il fondo può finalmente iniziare la risalita. Continuerà a commettere sbagli, ma non saranno gli stessi, in un'idea di evoluzione dinamica dell'individuo che non può procedere senza compiere passi falsi, ma che anche grazie a essi prosegue il proprio cammino.
Il destinatario delle lettere è Silvana Mauri, amica nel profondo di Pasolini. Ci sarebbe piaciuto sentir leggere dalla stessa voce anche le parole scritte da Silvana, ma ogni scelta artistica è soggettiva e va rispettata. Forse, nella sua presenza muta, questa figura di donna emerge in maniera ancora più forte, ancora più vitale. E' la donna che raccoglie e custodisce i frammenti di un "io" la cui sensibilità lo rende inquieto, frastagliato, impegnato in una ricerca affannata della felicità. Le parole che Pasolini scrive a Silvana rivelano le sue inquietudini e descrivono la capacità di accogliere un uomo nelle sue imperfezioni, nelle sue confidenze, nelle sue confessioni. Silvana viene descritta come l'unica persona alla quale Pasolini si rivela e si apre con sincerità; solo nell'amicizia con la donna lui sembra poter respirare.
Mi chiedo se i nostri rapporti hanno ancora la capacità di sperare di poter trovare una simile intesa, o se invece non si siano già inariditi nella doverosa ricerca della proprià felicità.

La medesima sensibilità lega Pasolini a Timi, di cui si intuiscono (e in parte si conoscono) i travagli interiori.
Nessuna voce poteva essere più indicata per comunicare le sfaccettature di una personalità. Quella di Timi è troppo irregolare per essere contenuta, cambia in continuazione, trovare una definizione è impossibile. La si intravvede nel suo stare in scena, nel suo rendere teatrale ogni gesto perchè ogni gesto assume significato e comunica una sensazione, un pensiero, uno stato interiore. La si intravvede nel suo darsi al personaggio, abbandonarsi a esso fino a dominarlo e diventare tutt'uno. La sua difficoltà, appena percepita, nel vedere e nel parlare crea pause inconsuete, sottolineature originali, dà un senso nuovo alle parole ed è motivo per trovare una nuova via, personalissima, di interpretazione. La sua voce particolarissima è uno strumento che suona dando colori diversi alle parole, creando un ulteriore livello di interpretazione più profondo.

Due piccole note stonate riferite al pubblico: l'essere invitato dalla  Direttrice ha fatto sentire il personaggio seduto nel pubblico in diritto di interrompere l'atmosfera per chiedere di abbassare la musica (coerentissimo accompagnamento). L'occhiataccia di Timi è stata eloquente, noi avremmo fatto anche di peggio. Non tutti ci conoscono per la nostra fama, ma tutti ricordano la nostra arroganza. Mi viene in mente Figline Valdarno, che alcuni Personaggi ricorderanno ancora...
La seconda nota stonata è per la signora seduta davanti a me: evidentemente aspettava messaggi molto importanti, se non è riuscita a evitare di usare il cellulare nemmeno per un'ora.
L'ultima osservazione è per la signora Shammah: ci fa molto piacere l'annuncio che il Teatro Franco Parenti sarà la "casa" di Filippo Timi; ci piace lo spazio che ospita spettacoli off come "Nemico di classe" o "Mea culpa", e dove si respira un'aria da comunità teatrale grazie alla presenza del bar e alla contemporaneità degli spettacoli che iniziano in orari scaglionati. Però che la signora non dica che nel suo teatro fa il tutto esaurito: sfrondato dai biglietti omaggio il pubblico pagante temo si riduca di molto.

visto al Teatro Franco Parenti il 2.XI.2010