domenica 30 gennaio 2011

"VOLLMOND" di Pina Bausch, in scena al Piccolo Teatro dal 10 al 13 febbraio



La danza di Pina Bausch torna in Italia con lo spettacolo Vollmond (Luna piena) presentato dalla compagnia Tanztheater Wuppertal Pina Bausch. 

Lo spettacolo, che ha debuttato nel 2006 a Wuppertal, dopo il successo della tournée parigina nel 2007, arriva in Italia. E’ il ritorno nel nostro Paese del Tanztheater Wuppertal dopo più di vent’anni da Palermo Palermo, omaggio al capoluogo siciliano presentato nel 1989.
Vollmond è la pièce del trionfo dell’acqua. Sul palco inondato di acqua vera che cade dall’alto come fosse pioggia, viene ricreata una vasca in cui l’acqua raccolta diventa fiume da attraversare a nuoto, con una barchetta di plastica, sguazzandoci con i piedi o perlustrandola in superficie. L’acqua sarà l’elemento con cui si scatena tra i danzatori la battaglia, compiuta a colpi di secchiate, che costituisce tanto un atto liberatorio quanto un gioco infantile.
Vollmond rappresenta il mondo della coppia, l’universo affettivo tra i due sessi fatto di rituali amorosi, piccole violenze quotidiane, abbracci concessi o rifiutati; la Bausch riesce a esprimere la ricerca dell’amore dell’altro, il bisogno di essere riconosciuti e accettati, la necessità di stabilire un contatto che possa rimanere, che si possa trattenere, al contrario dell’acqua che scorre e scivola via.
E’ un ritratto riuscito della nostra epoca recente, con quel ribaltamento di ruoli oggetto di molte discussioni: infatti gli uomini sono presentati come creature fragili e ansiose, mentre le donne hanno la grinta e l’aggressività delle dominatrici.
Una biografa della Bausch, Leonetta Bentivoglio, ha scritto che attraverso i suoi spettacoli “emerge uno dei più importanti autoritratti dell’umanità di fine secolo”.
La sua ricerca ruota intorno al tema della critica ai ritmi e ai valori della società moderna e consumistica, del contrasto tra uomo e società. La visione del mondo che ci offre la coreografa è molto personale e intima, basata sull’espressione diretta delle proprie personali interpretazioni e sentimenti.
“Io cerco di parlare della vita, delle persone, di noi, delle cose che ci muovono…Cerco semplicemente una forma per esprimere quello che sento”.

Suo celebre ammiratore fu Fellini, che nel 1982 l’aveva voluta nel suo film E la nave va, nei panni di una principessa non vedente. Di lei disse: "Una monaca col gelato, una santa coi pattini a rotelle, un volto da regina in esilio, da fondatrice di un ordine religioso, da giudice di un tribunale matafisico, che all'improvviso ti strizza l'occhio".

Lo spettacolo è da tempo tutto esaurito. I fortunati che saranno in sala nelle quattro recite in programma potranno dire "io c'ero!".

LA CONFIDENZA DELLE DONNE COL DOLORE: Lucrezia Lante della Rovere racconta il "Malamore"

MALAMORE
di Concita de Gregorio
con Lucrezia Lante della Rovere
al pianoforte Vicky Schaetzinger
regia di Francesco Zecca

Lucrezia Lante della Rovere passa in mezzo al pubblico con delicatezza, con l'eleganza che contraddistingue il suo portamento, la sua figura, il suo abbigliamento che unisce maschile e femminile: maschile nel pantalone, femminile nel top che lascia scoperta la schiena. Questi "Esercizi di resistenza al dolore" iniziano mettendo sotto i riflettori la scelta personale di dare spazio alla carriera senza rinunciare alla famiglia. E' il punto di partenza di un percorso nell'universo femminile in cui si incontrano violenza, paura, dolore. Anzi, confidenza al dolore, ciò che veramente contraddistingue le donne. In questo percorso ci si imbatte in alcuni emblemi della femminilità moderna: da Louise Bourgeois alla laureata che per mantenersi fa la prostituta, fino a Dora Maar, la cui storia ci coinvolge più delle altre, forse perché più delle altre ci riguarda. E' la storia di una donna che si annulla per amore nella personalità dell'uomo (Picasso, "è uno strumento di morte...non è un uomo, è una malattia"), che finisce per esserne il carnefice.
L'attrice parla con il pubblico (speriamo che un giorno questo pubblico italiano passivamente imbalsamato possa interagire con chi da sopra il palcoscenico lo chiama alla partecipazione) e mette sul tavolo della discussione le carte dell'emancipazione, della vulnerabilità degli uomini, della paura delle donne di essere se stesse quando se stesse significa autonomia, indipendenza.  
In un teatro che vuole trasformarsi in gineceo (e ci riesce, peccando forse un po' di compiacenza) in cui eccezionalmente vengono ammessi anche gli uomini - ai quali tentare di far capire la meravigliosa complessità della femminilità (ammirevole stoicismo nel tentativo di realizzare l'impossibile) - c'è spazio anche per il sorriso che suscita l'insegnamento della topolina. Si sorride, finché non si capisce che siamo tutte un po' "topoline", convinte che con noi il gatto sarà diverso e non ci mangerà.

L'eleganza della Lante della Rovere pervade tutta la scena, sobria, illuminata con una luce avvolgente che mette in risalto la protagonista e la pianista Vicky Shaetzinger, già vista in altri spettacoli, accompagnatrice partecipe e interprete intensa. 
L'attrice ci ha stupiti: in questa operazione molto romana del nome televisivo avevamo qualche pregiudizio, smentito da un'intepretazione appassionata. Meglio, comunque, la recitazione delle storie che non nella cornice di commento/riflessione: la Lante della Rovere dà corpo e sfumature con la propria vocalità ora soffiata, ora dirompente, ora delicata alle donne che interpreta. Manca un po' di verità, invece, quando si rivolge direttamente alla platea.
La delusione (anche questa inaspettata) arriva nel testo di Concita de Gregorio: manca la coesione tra le varie storie, o meglio il fil rouge è l'amore che distrugge le donne, ma nel sostenere questo argomento l'autrice sembra a tratti ripiegarsi su un autoreferenziale discorso postfemminista di affermazione della parità dei sessi e della diversità da difendere delle donne. 
Bello, comunque, trovare una sera per fermare la nostra incasinatissima vita e ricordarci cosa significa essere una donna oggi, qui.

visto al Tieffe Teatro Menotti il 29.I.2011

mercoledì 26 gennaio 2011

MARA CAGOL: GENESI DI UNA BRIGATISTA

AVEVO UN BEL PALLONE ROSSO
di Angela Demattè
regia di Carmelo Rifici
con Angela Demattè e Andrea Castelli

E' una scena intima, quella che ci si offre sul palcoscenico: intima come solo una storia famigliare può essere. Nel salotto in stile anni Sessanta, riprodotto con esattezza pittorica e illuminato con gradazioni calde, domestiche, un padre e una figlia si scontrano nel più naturale dei conflitti: quello generazionale, che mette a confronto la voglia di cambiare il mondo dei figli contro il tradizionalismo dei padri. Qui, però, il conflitto si colora con i toni della rivolta studentesca che ha portato al Sessantotto, di un nuovo modello di donna consapevole del proprio corpo e delle proprie potenzialità, che non si accontenta più di avere un marito e dei figli come massima (perché unica) aspirazione nella vita; il testo si immerge nelle problematiche sociali e culturali che negli anni Settanta hanno coinvolto i giovani comunisti che volevano ampliare i diritti degli operai e liberare la mente dei cittadini per renderli consapevoli, che volevano opporsi a uno Stato oppressore e sfruttarore. Lo spettacolo è la storia di come sono nate le Brigate Rosse, e della loro fondatrice: Mara Cagol. Anzi, Margherita: ragazza intelligente, studentessa modello, figlia affettuosa.
La drammaturgia è tutta costruita sul rapporto con il padre e sull'intimità che li lega: dagli accesi scambi di opinione dell'età adolescenziale al rapporto nato in quegli anni con Renato Curcio; dagli studi alla facoltà di Sociologia di Trento al trasferimento a Milano, alla fondazione delle Brigate Rosse, alla clandestinità, all'uccisione nel 1975 durante uno scontro a fuoco con i carabinieri.
In questo sviluppo della narrazione le parole si affievoliscono progressivamente, fino a rarefarsi quasi completamente nel finale: è il sintomo di una incomunicabilità esistenziale che traduce gli scontri insanabili con il padre. Anche la lingua cambia: dall'intimità del dialetto friulano alla spersonalizzata lingua italiana dopo il trasferimento di Mara a Milano.
La materia non era facile da trattare: Angela Demattè si districa con abilità tra gli spinosi sentieri delle azioni umane, rifiutando il facile giudizio senza l'approfondimento e la consapevolezza di una condanna ai Brigatisti. 
L'autrice giudica la Cagol, ma prima scava nelle ragioni di una scelta, tenta di capire, segue l'evoluzione delle sue motivazioni. Alla fine la condanna, implicita, arriva: ma nel frattempo abbiamoconosciuto il lato umano della brigatista.
Questo testo (vincitore meritato del Premio Riccione 2009) ha trovato in Angela Demattè l'interprete ideale per analizzare in profondità le intenzioni e i pensieri della Cagol, in Andrea Castelli un padre realistico e preoccupato, in Carmelo Rifici un regista in grado di entrare, grazie alla chiave del naturalismo, nelle pieghe del testo. Se dobbiamo trovare un difetto diciamo che il finale è sembrato un po' sbrigativo e il testo perde un po' di efficacia. Ma sono dettagli che non mettono in discussione la necessità di mettere in scena testi che affrontino catarticamente il passato prossimo del nostro Paese.

visto al Teatro Litta il 25.I.2011

martedì 25 gennaio 2011

UNA FAVOLA IMPERFETTA: IL "SOGNO" DI CARLO CECCHI

SOGNO DI UNA NOTTE D'ESTATE
di William Shakespeare
regia di Carlo Cecchi
con: Luca Romani, Valentina Ruggeri, Gabriele Portoghese, Davide Giordano, Sofia Pulvirenti, Barbara Ronchi, Enoch Marrella, Cecilia Zingaro, Silvia D'Amico, Luca Marinelli, Simone Lijoi, Fabrizio Falco.

La commedia forse più fresca di Shakespeare riflette la freschezza della generazione che la anima (i giovani innamorati) e la freschezza della giovanissima generazione di attori che la interpreta. Lo spettacolo è nato come approfondimento del saggio di fine corso della classe di attori diplomatisi all'Accademia Silvio D'Amico nel 2009. Già allora la regia fu affidata a Carlo Cecchi, che decise poi di proseguire il lavoro con questo gruppo e costruire uno spettacolo che è stato presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Al Teatro Franco Parenti arriva sconvolgendo il foyer, che per l'occasione si chiude trasformandosi in una sala: anche il luogo, così informale, conferisce un piacevole carattere di freschezza nell'utilizzo disinvolto degli ingressi, coerenti ma variati e dinamici.
Tutta questa freschezza non si riflette, purtroppo, nella regia. Oltre a non presentare nessuna idea illuminata intorno ai tanti spunti che l'opera propone, non aggiunge niente all'intento dimostrativo della formula del saggio di chiusura, e nemmeno alla recitazone dei ragazzi. Troppa maniera, la recitazione troppo aspirata, e pochi talenti emergenti fanno di questo spettacolo una simpatica feerie, niente di più. 
Da un maestro dell'innovazione come Cecchi ci si sarebbe aspettati qualche rischio in più, legittimato anche dal materiale attoriale ancora acerbo con cui ha lavorato. 
Sicuramente tra gli elementi più apprezzabili annotiamo la musica suonata dal vivo dai ragazzi (in veste anche di musicisti), con una partitura indovinata (non a caso il consulente musicale è Nicola Piovani) e un alternarsi nei ruoli vivace. 
Una vivacità che invece non abbiamo riscontrato in troppe scene statiche, quando il ritmo del testo imponeva un cambio di passo. Domina, ancora e sempre incontrastata, la grandezza del testo shakespeariano, capace di farci sognare e divertire a prescindere dalla messinscena e nonstante la notevole disparità tra il livello degli attori. Succede così che le scene più riuscite siano quelle della compagnia di attori, trascinata e capitanata dal bravissimo Luca Marinelli/Botto: comico senza cadere nella smorfia facile, con tempi e carisma da attore esperto, Marinelli mostra il talento già emerso nella Solitudine dei numeri primi. Insieme a lui, seppur con un talento ancora da affinare, Valentina Ruggeri/Ippolita/Titania e Barbara Ronchi/Elena, le uniche a mettere vita nelle parole, rendendole credibili, e investendole del significato che Shakespeare ha letto in esse. 
Sicuramente la professione farà crescere questi attori. Ma di fronte a un allestimento come questo ci chiediamo: qual è il testimone che un Maestro ha lasciato in eredità ai potenziali maestri di domani? Gli attori, vivendo il lavoro dall'interno, lo sapranno benissimo; ma che valore ha questo insegnamento, se non è in grado di tradurlo in un'espressione che sappia comunicare se stessa al pubblico?

visto al Teatro Franco Parenti il 24.I.2011

domenica 23 gennaio 2011

PARTIRE. RESTARE. TORNARE. La storia di un siciliano "d'alto mare"

CUORE DI CACTUS
di Antonio Calabrò
adattamento, regia e interpretazione di Fausto Russo Alesi


L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà. Se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. 
(Italo Calvino, "Le città invisibili")
  
Partire, restare, tornare. Partire, restare, tornare.
La Sicilia, Palermo, e il suo mare. E il bisogno di fare il percorso a ritroso nelle proprie origini per verificare, smentire, dimostrare a se stessi e alla propria terra che non si ha tradito, non si è scappati, che quell'inferno non lo si è accettato e si è andati alla ricerca della possibilità di realizzare un futuro.
Proprio quel futuro che come forma verbale non esiste nemmeno, nel dialetto siciliano: "La scommessa di un futuro possibile, diverso, migliore, è già una sfida con la propria lingua d'origine".
Fausto Russo Alesi si fa moderno Ulisse che intraprende il viaggio nelle proprie origini: non si trattta di rievocazione nostalgica, bensì di trovare nella memoria del passato le ragioni delle condizioni del presente.
E' un viaggio che parte dal sentimento della terra Sicilia, anzi dall'essere siciliano. Il fiato che soffia sulle parole che descrivono la natura dei luoghi e delle persone è pieno dell'amore, del desiderio (che nasce da una mancanza) nei confronti della propria terra. E dall'inquietudine che vive nei siciliani d'alto mare, in coloro che sentono il richiamo di partire per mare per ritrovare se stessi, sotto la maledizione di quelli che restano.
Nella "notte dei ricordi e dei bilanci" ripercorriamo insieme alle parole del protagonista la sua storia: la famiglia, i luoghi, il rapporto con il proprio mare, e le prime inquietudini, foriere di quella necessità di partire. Come sottofondo, la voce del pianoforte che dialoga con il testo.
Prima di maturare il momento della partenza il rapporto con Palermo e la Sicilia vive intrecciandosi con la storia sociale, politica, culturale di quegli anni. Gli inizi come cronista a L'Ora, il giornale in cui tanti giovani hanno riversato gli entusiasmi di rinnovamento, e gli insegnamenti del maestro Vittorio Nisticò; le note jazz del pianoforte danno voce ai lustri degli anni Settanta, con una vitalità culturale votata alla sperimentazione artistica, per poi farsi greve nel descrivere il deperimento che ha cancellato le glorie degli antenati. E poi la "mattanza": il sangue, la violenza, le atrocità che la mafia ha messo davanti agli occhi dei palermitani. Il fallimento di quel tentativo di cambiare il mondo, l'omicidio del comissario antimafia Ninni Cassarà, e la determinazione a partire. Non il tradimento della propria terra, ma la stanchezza di dover piangere sul sangue dei troppi amici uccisi.
I moti interiori di Calabrò trovano interprete ideale in Fausto Russo Alesi, non solo per l'assonanza tra le loro storie personali, ma anche per la triste coincidenza delle loro partenze: Calabrò all'indomani dell'uccisione di Cassarà, Russo Alesi di quella di Falcone. E' interprete ideale in virtù della materia attoriale di cui è fatto il suo stare in scena: pochi attori sanno investire ogni parola, ogni gesto, ogni oggetto di senso, di contenuto, di evocazioni con la verità di Russo Alesi. Il testo diventa una partitura in cui l'attore trova la ritmica, l'andamento, le variazioni della metrica. Questo è uno spettacolo che trova sostanza nei cambi di ritmo e nella chiara distinzione delle zone della scena che rappresentano i diversi luoghi: se il proscenio, separato da un cancello, è il luogo dell'oggi, quando il cancello si apre il resto della scena diventa il luogo del ricordo, "dell'anima".
La regia, firmata dallo stesso Russo Alesi, rispecchia la medesima sensibilità dell'interprete: le luci disegnano atmosfere, permeano la scena di suggestioni, i semplici oggetti di scena (una sedia, una macchina da scrivere, copie de L'Ora sparse per terra, il pianoforte) nelle mani di Russo Alesi diventano simbolo, e l'attore gioca con essi, inventa simboli fino alla suggestione dell'immagine finale (la luce del faro e il canto dei gabbiani).

"Palermo è stata ed è l'inferno. Ma proprio per questo di questo inferno bisogna provare ad avere ragione. Senza piangersi addosso. Ali d'aquila. E pretendere di volare".

Ascolta l'intervista di Ira Rubini a Fausto Russo Alesi a Babel (Radio Popolare) 
Babel e Cuore di cactus in teatro


Dalla rassegna stampa
" ...Fausto Russo Alesi, attore di talento tra i più preparati e curiosi della sua generazione...dà voce, intelligenza, corpo ma anche emozione al racconto di Antonio Calabrò...trovando in se stesso, nella sua esperienza, nella sua tenerezza schiva verso la figura paterna, nelle sue scelte, una rispondenza...non c'è compiacimento nel'linterpretazione asciutta e notevole dell'attore, ma una grande sintonia con l'autore" 
(Maria Grazia Gregori, "delteatro.it")

SPETTACOLI DA NON PERDERE - 1/2011 gennaio/febbraio

Selezione di spettacoli che vale la pena di vedere nelle prossime cinque settimane. Prendetelo come un invito, un consiglio, un suggerimento...ma soprattutto come un augurio, perché il teatro è il regalo più bello che potete fare alla vostra anima e alla vosta coscienza!

"'NA SPECIE DE CADAVERE LUNGHISSIMO" 
dove: Teatro Franco Parenti
perché vederlo: per Gifuni, attore straordinario; perché ascoltare Pasolini fa bene.

"AMLETO"
dove: Teatro CRT
quando: fino al 23 gennaio 
perché vederlo: per vedere il Teatro del Carretto, una delle compagnie di innovazione più affermate.

"GIOTTO"
dove: Teatro della Cooperativa
quando: fino al 23 gennaio
perché vederlo: perché la Compagnia Sutta Scupa (di cui fa parte Giuseppe Provinzano, autore e interprete del testo) è uno dei gruppi di innovazione dell'ultima generazione; per vedere un modo diverso di raccontare la cronaca (il G8 di Genova).

sabato 22 gennaio 2011

LA DIGNITA' NEGATA (E IGNORATA) DEL TEATRO

Milano, 18-22 gennaio 2011. Quella che terminerà domani sarà stata una delle settimane di questa preoccupata e travagliata stagione a più alta densità di debutti. I teatri milanesi hanno visto una incredibile concentrazione di prime; ne abbiamo contate undici, e siamo sicuri che qualcuna ci è sfuggita. Da "Cuore di cactus" dell'eccellente Fausto Russo Alesi al Parenti (18) a "L'avaro" del Teatro delle Albe all'Elfo Puccini (21); da "Malamore" al Tieffe Teatro Menotti (19) ad "Avevo un bel pallone rosso" al Teatro Litta (18); da "Sogno di una notte d'estate" di Cecchi al Parenti alle "Mammole" all'Elfo Puccini. E ancora: "Giotto" al Teatro della Cooperativa, "Il vespro della Beata Vergine" di Antonio Tarantino al Litta, "Paladini di Francia" al Teatro Verdi, "Flags" con Beppe Rosso al Teatro Ringhiera, "Notti bianche" del giovane regista diplomato Paolo Grassi Alberto Oliva al Teatro Oscar. Senza contare gli spettacoli con due recite nel weekend.
Ebbene, conoscendo i tempi e soprattutto gli spazi riservati alla critica ho atteso con impazienza questo giorno di sabato, in cui i maggiori quotidiani nazionali ("Corriere della sera" e "Repubblica") dedicano qualche rigo in più al teatro, sicura di leggere qualche recensione. La mia attesa è sfociata in una arrabbiata delusione di fronte al vuoto delle pagine di cultura e spettacolo. I due quotidiani citati non hanno riservato spazio a nessuno degli spettacoli che hanno debuttato questa settimana. Diciamo meglio: a nessuno spettacolo milanese. Forse che Milano non ha più questo presunto (e, a questo punto, presuntuoso?) primato nazionale di "città del teatro" (come già insunuato dai Premi Ubu 2010, assegnati a nessuno spettacolo passato da Milano)? Problema di altro genere. Qui ci preme dire come su pagine nazionali, locali, inserti le uniche tracce sbiadite di teatro sono state: Emma Dante e la presentazione di "Trilogia degli occhiali" - che almeno noi milanesi potremo vedere a metà febbraio al CRT ("Repubblica", pagina nazionale), il giochino delle domandine (basta chiamare in causa Proust!) a Franca Valeri (inserto di "Repubblica"), intervista a Scamarcio, prossimo al debutto nel panni di Romeo (sorrisino sornione in merito a quanto gli andranno larghi quei panni...) e intervista ad Anna Marchesini. Bè, c'è sempre il paginone curato da Franco Quadri sulla "Repubblica" a salvarci - ci siamo dette. No, questa settimana non solo Quadri non ha scritto, ma anche in questo caso non sono comparsi spettacoli andati in scena in una delle oltre trenta sale teatrali milanesi. 
Insomma un'anemia totale che potrebbe far pensare al lettore sprovveduto che il teatro sia in agonia produttiva. La maniera migliore per negare la dignità del riconoscimento dell'esistenza e dell'essenza di un'entità è ignorarla, fingere che non ci sia. Salvo dedicare paginoni ai problemi dei lavoratori della Scala, che vengono strumentalizzati per parlare di altri problemi che coinvolgo la cittadinanza nazionale. Perché in fondo è questa la triste immagine che si profila come un'ombra su questo settore: che le difficoltà dello spettacolo dal vivo riguardano solo i dipendenti dei teatri (mentre invece, e giustamente, i problemi degli operai della Fiat riguardano l'Italia tutta). Insomma sembra che l'opinione pubblica guardi al teatro come si guarda il barbone deformato che chiede l'elemosina: sai che è lì, ma la sua sofferenza non ti riguarda e ti giri dall'altra parte.
Dimenticavo: una recensione è uscita, l'unica. Quella su Lucrezia Lante della Rovere (dove non si è dimenticato di scrivere che presente alla prima c'era anche Giorgio Armani, che ha disegnato gli abiti di scena). Casualità?
Non ci resta che sperare nell'inserto culturale di domani del "Sole 24 Ore".

giovedì 20 gennaio 2011

PASOLINI, OVVERO: UN PRECURSORE DEI TEMPI

'NA SPECIE DE CADAVERE LUNGHISSIMO
un'idea di Fabrizio Gifuni
da Pier Paolo Pasolini e Giorgio Somalvico
con Fabrizio Gifuni
regia di Giuseppe Bertolucci

Il binomio Gifuni-Bertolucci si conferma scuotitore di coscienze. Dopo L'ingegner Gadda va alla guerra, Gifuni sceglie un altro intellettuale moderno, lucido conoscitore del contemporaneo, precursore dei tempi: Pier Paolo Pasolini. Traendo materiale da diversi suoi scritti (Scritti corsari, Lettere luterane, La nuova forma della meglio gioventù, San Paolo - appunti per un direttore di produzione) Gifuni costruisce una drammaturgia che arriva al pubblico in maniera diretta, come un'accorata conversazione tra amici. Magari in un bar, come evoca la scelta scenografica di sistemare sulla scena dei tavolini a cui è seduto il pubblico, e tra cui l'attore si sposta esponendo il pensiero di questo intellettuale che è riuscito a fotografare il proprio presente in maniera così profonda e penetrante da gettare uno sguardo sul futuro, da vero precursore. Uno sguardo che è valido ancora oggi, se noi riconosciamo la nostra stessa contemporaneità nella tagliente critica nei confronti della degradazione culturale della società di massa, nella strumentalizzazione dei fatti di cronaca (sentire pronunciare la parola delitto non può che farci pensare ad Avetrana e alla totale abdicazione del giornalismo ad essere veicolo di informazione, che - ogni tanto bisogna dirlo ad alta voce per non dimenticarselo - rimane un diritto di ogni libero cittadino). E quali prospettive ci apre sul presente che siamo costretti a vivere e giudicare: l'analisi del nuovo potere che si configura come totalitario nel momento in cui si mostra in grado di cambiare la coscienza delle persone, omologandone l'orizzonte culturale ormai appiattito dal consumismo. Più che un discorso strettamente politico, Pasolini ne fa un discorso più ampiamente sociale: da un lato i principi del "possedere e distruggere" dei conservatori, dall'altro i dettami "produrre e consumare" imposti dalla società dei consumi - che è, appunto, dittatoriale.
Manipolazione dell'informazione, della televisione utilizzata come strumento di potere, non più come veicolo di messaggi, bensì come elaboratore di messaggi: tristemente pressanti, questi argomenti colpiscono come uno schiaffo gli spettatori, che si sentono chiamati in causa a non rimanere immobili, passivi, vittime. Gifuni ormai si identifica con la proposta di un tipo di teatro intelligente, colto ma non elitario, di cui il nostro teatro e la nosta società hanno bisogno (e che invece costituiscono una rarità).
Un cambiamento di tono si ha quando l'intellettuale Pasolini (e come tale relegato a una condizione di isolamento) decide di spogliarsi del vecchio potere per abbracciare la modernità, il progresso, e vestire i panni del padre, di cui i figli pagano le colpe. 
L'attivismo per contrastare la degenerazione della generazione dei figli, ridotti ad essere stereotipi e criminali, è l'unica alternativa alla morte dell'intelletto. Una prospettiva a cui sono condannati tanto la generazione dei padri quanto Pasolini stesso.
Questa prima parte sfocia nel poemetto in romanesco di Giorgio Somalvico, recitato con istrionico trasformismo e intensità dal meritatissimo vincitore del Premio Ubu 2010. Forse, se ci è consentito trovare una discordanza in uno spettacolo così denso di significato, quest'ultima parte finisce per sfuggire allo spettatore, che non segue i (troppo) veloci spostamenti di voci dei personaggi.
"Il potere - scriveva Pasolini - ha deciso che siamo tutti uguali". Per fortuna abbiamo la possibilità di contrastarlo con Gifuni.

visto al Teatro Franco Parenti il 19.I.2011

domenica 16 gennaio 2011

UN “CUORE DI CACTUS” ALLA RICERCA DI SE STESSO: dal romanzo allo spettacolo teatrale.

"Cuore di cactus" in prova
Lasciare la Sicilia intrisa del sangue dei morti di mafia: nel 1985 il commissario Ninni Cassarà, nel 1992 Falcone e Borsellino. Antonio Calabrò e Fausto Russo Alesi: due storie simili destinaate a incrociarsi. 
Accadrà a teatro: dal 18 gennaio al 6 febbraio al Teatro Franco Parenti Fausto Russo Alesi porterà in scena Cuore di cactus, tratto dall'omonimo libro di Calabrò, pubblicato a marzo 2010. L'attore curerà anche la regia e nel lavoro drammaturgico ha avuto la collaborazione dello stesso autore, che "ha tagliato e 'concentrato' una confessione a voce alta - spiega Calabrò. Prima di allora Russo Alesi lo conoscevo solo di nome. L'avevo visto al Piccolo Teatro di Milano: un meraviglioso Shylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare, con la regia di Ronconi".

Antonio Calabrò, giornalista, scrittore e ora direttore degli Affari istituzionali e culturali della Pirelli e della Fondazione Pirelli, ha definito Cuore di cactus un “Diario in pubblico”: la storia privata dell’uomo si riflette nelle vicende pubbliche di un Paese di cui si seguono i cambiamenti politici, economici  e culturali dagli anni Sessanta ad oggi. E’ un bilancio della propria vita, vissuta tra Palermo e Milano, e delle proprie scelte; un tentativo di confrontarsi con il proprio tempo e con la nostalgia dei ricordi, con il proprio impegno professionale e culturale, con il proprio ruolo di “uno che se ne va”.
Calabrò, originario di Patti (Me), ha scelto di andarsene dalla sua Sicilia nel 1985, dopo un quindicennio di crescita professionale nella redazione di L’Ora, giornale di battaglia civile contro la mafia. Lo stesso giorno dell’uccisione dell’amico Ninni Cassarà, commissario impegnato nella lotta alla mafia, Calabrò decide di partire per Milano, emblema di un Nord percorso da vertigini industriali e tensioni sociali.
Nello spettacolo Fausto Russo Alesi amalgama e sovrappone la propria esperienza personale al racconto di Calabrò, dando voce e corpo alla ferita interiore aperta dallo strappo tra il sentimento forte delle proprie radici isolane e il desiderio, la necessità di andare altrove; tra il cercare se stessi nei luoghi delle proprie origini o trovare se stessi altrove, con la tentazione di cedere all’idea di aver tradito la propria terra e la consapevolezza di non averlo fatto.
"In Sicilia si ha più coraggio a restare, che a partire - spiega l'attore. Ma a restare lì, la senti tutta, quella sensazione descritta da Calabrò, l'essere costretto dal mare".
La messinscena, che prevede l'accompagnamento del pianoforte in scena, si fonda su questi due elementi: quello della distanza e quello della “ferita aperta”, il cui dolore l’interprete cerca di lenire attraverso il racconto. Un racconto che rappresenta un atto d’amore nei confronti della Sicilia, un amore che rimane sempre (nonostante le difficoltà del rapporto con la propria terra d’origine), come l’acqua conservata nel cuore del cactus anche nel deserto.
La conclusione legittima le proprie scelte e dà loro la conferma dei fatti: "Bisogna davvero andare per mare, per ritrovarsi".

Teatro Franco Parenti
dal 18 gennaio al 6 febbraio 2011
Sala A come A
orario spettacoli: dal martedì al venerdì ore 20.30 - sabato ore 19.45 - domenica ore 16 - lunedì riposo


L'ASSEDIO ALLA SOCIETA' DI "20 NOVEMBRE"

20 NOVEMBRE
di Lars Norén
regia di Fausto Russo Alesi
con Fausto Russo Alesi
Produzione Piccolo Teatro di Milano

Entri in sala, il Teatro Studio che sempre dà una sensazione di accoglienza, di abbraccio con le sue balconate semicircolari, e trovi una fila di sedie a delimitare i tre lati della scena spoglia. Dal quarto lato (il fondo) arriva un fascio di luce dritto e intenso come un fucile puntato addosso. Dopo i primi istanti noti che alcuni spettatori sono immobili, li guardi meglio e ti rendi conto che sono manichini incredibilmente somiglianti a persone reali. Prima sensazione di disagio.
Entra il protagonista, chiude la parete che fa da fondale/muro del pianto/lavagna, per un momento si abbassano le luci in sala, per poi riaccendersi subito a illuminare il pubblico. Il protagonista, con movimenti precisi, in controtempo, calcolati e misurati si arma: coltello, munizioni, imbraccia il fucile. Inizia l'assedio.
A tenere il fucile puntato sugli spettatori è il Sebastian Bosse rappresentato da Lars Norén, autore che con i suoi testi ci mette davanti alle inquietudini, agli interrogativi, agli orrori della nosta società. Il ragazzo tedesco che una mattina del 2006 si è presentato a scuola armato fino ai denti e ha aperto il fuoco su insegnanti e compagni di classe, per poi uccidersi, è rappresentato prima che la tragedia avvenga: quella mattina, prima di andare a scuola.
Lars Norén non cerca giustificazioni, non dà giudizi, ma pone lo spettatore in maniera problematica di fronte ai limiti della nostra società, e l'impatto forte che hanno i suoi testi ci coinvolgono in prima persona. L'obiettivo non è la "denuncia", non è la "fotografia" della società, ma la "lente d'ingrandimento" (come ha scritto Luca Ronconi) attraverso la voce della parte debole della società, di coloro che subiscono, che soccombono ("Se la gente non sostiene la vita si può anche ammazzare"). Sebastian Bosse è un adolescente che non ha avuto punti di riferimento e non ha ricevuto gli strumenti per poter crescere all'interno della società in cui ha vissuto, dove ha cercato degli interlocutori senza trovarli. La sera prima del suo gesto ha postato su YouTube (ormai veicolo fallace di comunicazioni frammentarie, equivocabili, illusorie di un tutto che non rappresentano) un video a cui ha affidato la spiegazione dei motivi che l'hanno indotto a compotarsi come ha fatto. Sebastian voleva urlare il proprio disagio, ma si è sentito perseguitato e ha usato un altro modo di comunicare, quello delle armi (che per lui rappresentavano un valore). Emerge chiaramente dal testo il protagonismo di Sebastian nella sottolineatura della propria soggettività: "La mia ora", "Sono io che decide". Voleva essere protagonista di una vita che ha sempre vissuto in disparte, alimentando il sentimento di essere sfigato, fallito, fottuto.
Da queste suggestioni è nata l'idea registica di Russo Alesi di mescolare tra pubblico vero il pubblico dei manichini: rappresentano gli interlocutori reali di Sebastian, quelli che non hanno saputo comprendere il suo disagio. Lars Norén chiama in causa il pubblico vero a intervenire quando la tragedia non è ancora avvenuta per cambiare il corso degli eventi, per trovare delle risposte agli interrogativi che Sebastian pone guardando violentemente negli occhi lo spettatore. Nel luogo della cultura e dell'incontro (il teatro) Norén innalza la storia di Sebastian a portavoce del disagio non solo giovanile, ma sociale e culturale che coinvolge tutto il mondo occidentale. Interrogativi sulla ricerca della felicità, sul consumismo, sull'omologazione, sul senso della vita, sulle prospettive future (il protagonista scrive sulla lavagna Se questo è il futuro non mi interessa), sulla sete di avere sempre di più, cercano una possibile risposta e impongono una riflessione non passiva sul ruolo delle istituzioni come scuola e famiglia.
A scandire i tempi della storia il cronometro, come una bomba a orologeria. Alla fine a esplodere di fronte agli occhi degli spettatori è il video, questa volta vero, di Sebastian. Un ragazzo come tanti altri, solo e con un bisogno disperato di comunicare e comunicarsi. 
Fausto Russo Alesi ha impostato una regia precisa e con idee efficaci, e da interprete l'ha seguita con rigore e coerenza - come di consueto. Ha scavato nelle pause individuate nel testo per trovare sensi profondi alle parole, che in alcuni momenti si sono fatte quasi monologo interiore. Ha condiviso con il protagonista il tortuoso percorso interiore verso un gesto estremo, con un'intensità emozionante che ha trasmesso tutta la violenza del testo.
In entrambe le due repliche che abbiamo visto il pubblico non ha dato risposta diretta alle domande che si è sentito rivolgere dal protagonista. Un atteggiamento dovuto a diversi fattori: in primo luogo alla rigidità del pubblico italiano, abituato a interagire con l'attore in scena solo in presenza dell'elemento comico (non riferito esclusivamente al cabaret o dintorni, ma anche a spettacoli di prosa di forte matrice comica, come per esempio l'Arlecchino di Soleri); pubblico italiano invece a disagio nelle situazioni di prosa drammatica (e già mettono in imbarazzo le luci in sala perché suggeriscono un sentimento di coinvolgimento che da Wagner in poi si è lentamente spento fino all'attuale assopimento intellettuale). In secondo luogo il Teatro Studio non ha la forza claustrofobica della Scatola Magica (dove è stato allestito lo spettacolo la scorsa stagione): risultando più dispersivo lo spazio, è risultato indebolito anche l'urto emotivo che poteva spingere il pubblico a rispondere a voce alta a quegli interrogativi. Infine l'impostazione recitativa di Russo Alesi ha creato una linea di distacco con il pubblico: un'interpretazione non naturalistica, eppure così vera, prestata a una materia umana non condivisibile, semmai catartica, con un chiaro intento di mettere sotto pressione gli interlocutori/spettatori accusandoli (Voi non siete innocenti!). Emozioni troppo forti per poter dare voce a una reazione.

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visto al Piccolo Teatro Studio il 12 e il 21.XII.2010

venerdì 14 gennaio 2011

LA MARATONA DI NEW YORK DIVENTA SIMBOLO DELL'ESISTENZA

MARATONA DI NEW YORK
di Edoardo Erba
diretto e interpretato da Cristian Giammarini e Giorgio Lupano
Produzione Teatro Stabile delle Marche

Una veduta aerea di New York con una musica che accentua le suggestioni del fascino di questa città, fino a perdersi in una visione del cielo stellato. Così inizia questa messinscena diretta e interpretata da Cristian Giammarini (attore di ronconiana scuola ed "elfo" per lungo tempo) e Giorgio Lupano (che si alterna tra teatro, televisione e cinema), che fanno emergere l'aspetto onirico della storia e l'atmosfera rarefatta dell'ambientazione.
Maratona di New York è un atto breve che Edoardo Erba scrisse agli esordi della propria carriera attirando i riflettori nazionali ed esteri: vincitore del Premio Candoni nel 1992, il testo è stato tradotto in inglese, catalano, spagnolo, israeliano e friulano, ed è stato rappresentato a Londra, Edimurgo, Barcellona, Buenos Aires, Tel Aviv e Parigi. Un successo esteso, di cui, provando a indagarne i motivi, troviamo le ragioni nei dialoghi leggeri che raccontano una generazione (quella dei trentenni circa), nella progressiva profondità in cui si spingono i temi accennati e le domande che i due protagonisti si fanno, nelle sfumature dei personaggi, dai contorni sempre meno delineati. Ma soprattutto dalla splendida metafora della corsa come vita, della fatica come lotta, dell'allenamento come preparazione al riscatto del passato e alla vittoria futura. 
La normalità della situazione si tinge progressivamente di tinte pinteriane: nella normalità della situazione (due amici, Steve e Mario, che si incontrano per allenarsi alla corsa di notte in vista dell'obiettivo indicato dal titolo della pièce) emerge poco a poco l'incertezza dei riferimenti di luogo (in un paesaggio che Mario non riconosce più) e soprattutto della stessa reale identità dei due protagonisti: rimane avvolta nella nebbia l'ipotesi che i due siano fratelli, che siano morti, che siano la stessa persona nella rappresentazione di un "io" sdoppiato in continuo dialogo con se stesso. 
L'allestimento sottolinea in maniera efficace questi elementi: la scena, immersa nei contorni sfumati e incerti dei neri, trova sostegno nelle videoproiezioni con cui si contamina il linguaggio della parola: la tessitura visiva è sia di ambientazione (le immagini del sentiero di notte) che - soprattutto - simbolica (l'iniziale skyline di New York a identificare l'obiettivo del loro correre, il cielo stellato su cui sono disegnate le costellazioni - simbolo dei sogni che animano i due protagonisti, le immagini brevi e in alcuni momenti visionarie che interrompono la proiezione fissa del cielo).
Il ritmo è scandito dalla corsa degli ottimi Giammarini e Lupano (infaticabili in scena): un ritmo sospeso nelle cui pause trovano sviluppo i ricordi spesi tra i giochi d'infanzia e le gelosie giovanili e gli interrogativi imposti da temi leggeri (come il cameratesco racconto di come si sono conosciuti, o le riflessioni sulle donne) che si approfondiscono nella seconda parte (l'esistenza di Dio, i rapporti familiari).
Lo spettacolo è diviso in tre blocchi scanditi da altrettanti momenti di sospensione: la prima parte è quella più realistica, con i due amici che si incontrano e iniziano a correre chiacchierando di temi leggeri; nella seconda si rivelano progressivamente le suggestioni metaforiche della Maratona come meta della vita, del correre come vivere, del dolore come barriera da abbattere con l'insistenza e la tenacia nel sopportarlo; infine la terza lascia spazio alle suggestioni metafisiche oniriche, in uno spazio senza contorni e identità incrociate e indefinite.
I due attori in scena prestano con esattezza la propria fisicità ai personaggi esprimendone il carattere: Mario (Giammarimi) è più timido, dimesso, preso tra paure e infantilismi; Steve (Lupano) è sicuro di sé, ha certezze ed entusiasmi che lo portano ad avere un atteggiamento più grintoso nei confronti della vita. Inizialmente è Steve a reggere meglio la corsa (leggi: vita), ma nell'ultima parte sarà invece Mario a riuscire ad elevarsi dalla realtà e raggiungere la meta, il sogno. Franco Quadri (nell'introduzione ai testi di Edoardo Erba) ha visto in questo scambio di posizioni la sconfitta di Steve che rimane ancorato alla sua permanenza nel reale, mentre il pubblico segue Mario nella sua trance agonistica, in una corsa che sembra portarlo in mezzo a quelle stelle che fanno da sfondo.
Il pubblico ha reso il giusto riconoscimento ai due interpreti con applausi sinceri e ripetute chiamate. Ci farebbe piacere sentire lo stesso calore in tante platee milanesi un po' infreddolite.

Per vedere il video promo dello spettacolo clicca qui

visto al Teatro Giuditta Pasta di Milano il 13.I.2011