Un viaggio nella materia densa e torbida di una mente ormai martoriata: dalla malattia - la depressione, dalla sofferenza che l'ha vinta spingendola al suicidio, giovanissima ma già arrivata sul fondo della sopportazione della difficoltà di vivere, di trovare il proprio posto nella società, di stringere relazioni umane.
"Psicosi delle 4 e 48" descrive il delirio estremo di Sarah Kane, scandalosa e acuta scrittrice inglese: 4 e 48, l'ora in cui l'angoscia arriva a farle visita, segna il momento della fine.
I frammenti di questa mente sono messi in scena da Maurizio Lupinelli con scelta registica di fortissima efficacia: lo spettacolo nasce in una sala di dimensioni ridottissime del Castello Pasquini, trasformata in una scatola nera per accentuare il senso di claustrofobia che scaturisce dal testo. La luce e' quella delle 4 e 48 del mattino: un buio, più che una luce, da cui affiora una materia umana, quella di Elisa Pol, tesa, trattenuta, costruita con cesellatura minuziosa su ogni singola parola - nella ricerca della zona d'ombra da cui scaturiscono i pensieri.
Questo di Sarah Kane e' un testo molto frequentato ultimamente, nell'alveo, pero', di una recitazione naturalistica. Se ne distacca in maniera netta Lupinelli, che costringe l'interprete a uno sforzo costante di astrazione dei toni e dei gesti. Il risultato e' intrigante per la profondità' in cui scende la comprensione e la forza dei pensieri dell'autrice.
Dal buio radente dell'unico proiettore proviene una voce gutturale, tenuta con grande rigore per tutta la prima parte del testo, quella più concettuosa e scandita in assenza di nessi logici. Piano piano emergono i contrasti e le lacerazioni di un essere umano che non ha trovato in se stessa le risposte necessarie per comprendere le leggi dei rapporti umani. Una mente fragile, abbandonata a se stessa, infine debole.
"Non voglio morire", dice disperata, ma poi aggiunge subito che "questo e' un mondo in cui non mi va di vivere". Riecheggiano le parole di un altro testamento tragico, quello di Sebastian Bosse - giovanissimo autore della strage del 2006 in una scuola tedesca e protagonista del testo di Lars Noren "20 novembre": "Se questo e' il futuro non mi interessa". La resa di Sebastian e' più rassegnata e lucidamente folle. Quella di Sarah Kane e' una sconfitta ("Sono un fallimento come persona") conseguente al silenzio che uccide il suo urlo di aiuto. Gli occhi di chi assiste dialogano con il buio, creando suggestioni che aumentano la sensazione di essere sempre più invischiati in una materia densa, una materia cerebrale torbida e in disfacimento. Le impressioni sonore nascono per suggerire la corsia d'ospedale dal cui letto la protagonista leva il suo grido, ma riescono a sottolineare la discesa verso il buio definitivo, la densità, la pastosita' della mente di Sarah Kane.
Delirante, certo, ma non cosi' distante da noi da non costringerci a interrogarci su quale sia il confine dell'equilibrio mentale. "Muoio per il desiderio vitale di essere amata": condividiamo le stesse emozioni, ma Sarah nega la nostra estraneità nei confronti di gesti estremi facendoci essere sempre vigili verso noi stessi e verso quello che ci aspettiamo dagli altri.
La difficoltà di vivere accompagna anche il personaggio di Amleto, incapace di affrontare l'uccisione del padre e le responsabilità che ne conseguono: la relazione, inaccettabile, tra la madre e lo zio-assassino Claudio, il rapporto con Ofelia, che Amleto non riesce a sostenere.
Il dramma shakespeariano e' stato riscritto da Magdalena Barile, che ha realizzato "Un altro Amleto", messo in scena da Sandro Mabellini (regista che altrove ha dimostrato di saper far emergere luci e ombre dei testi affrontati, soprattutto "Dracula" di Dejan Dukovski e "Tu (non) sei il tuo lavoro").
Il problema, nel cimentarsi con i Classici, sta nel trovarne l'attualità: siamo d'accordo con l'indiscutibile principio brechtiano dell'essere liberi di interpretarli senza eccessivi timori reverenziali; la rilettura, pero', non può prescindere da un peso specifico che escluda il rischio di banalizzazione.
Questo Amleto della Barile non e' "altro" da quello del Bardo: i vestiti contemporanei, cosi' come l'ambientazione in una ricca famiglia imprenditoriale del Nord, non allontanano dal castello di Elsinore. I legami tra i personaggi, le loro intenzioni, i sentimenti rappresentano l'aspetto più potente del testo: ma sono quelli scritti da Shakespeare! Da qui la sensazione che si tratti di un "travestimento" di Amleto che nulla aggiunge al capolavoro originale, confermando ancora una volta che cimentarsi con i grandi Classici, già perfettamente scritti, e' un rischio che forse vale la pena correre in presenza di un'idea forte almeno quanto l'originale. Vestire Ofelia come una ragazzina punk non attualizza il testo, lo banalizza. Come banale suona l'eco delle parole più celebri della storia del teatro di sempre. "Siamo fatti della stessa pasta di cui e' fatto il mare".
Interessante, invece, l'uso del video in dialogo con la scena: troppo esiguo per limitare i dubbi su questo "altro Amleto".
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