venerdì 5 novembre 2010

A CORPO MORTO

A CORPO MORTO
di e con Vittorio Franceschi
regia di Marco Sciaccaluga
maschere di Werner Strub


Vittorio Franceschi si insinua nel profondo delle emozioni e lo fa con tanta delicatezza che lo spettatore si trova scardinato senza essersene reso conto.
Si parla di morte, anzi peggio: di come "quelli che restano" reagiscono e si rapportano con la morte di una persona cara. Di fronte al senso di vuoto che ci schiaccia dovuto alla perdita, reagiamo non prendendo in considerazione la gamma di sentimenti che un evento simile potrebbe costringerci a scoprire in noi. Il rifiuto a volte e' una difesa.
Nella scena calda e spoglia, di un bianco avvolgente e morbido, interrotta da due alberi funestamente spogli, prendono corpo, voce, volto sei "sopravvissuti" che danno l'estremo saluto alla persona che li ha appena lasciati: un ragazzo congeda l'amica di cui era segretamente innamorato, una moglie il marito col quale ha condiviso una vita, un padre il figlio suicida, una figlia la madre unico punto di riferimento e infine un barbone il compagno di strada.
Franceschi crea i personaggi con le maschere create appositamente da Werner Strub, che e' il miglior mascheraio d'occidente - e si vede. Hanno una parte fondamentale nell'impatto emotivo del testo.
Con le sue maschere Franceschi si addentra nei tabu', nelle censure, nei muri dello spettatore fino a farne crollare le difese e a sciogliere quel blocco che si ha di fronte all'evento luttuoso. Lo fa dapprima in punta dei piedi, con simpatia, strappando anche una risata nel pubblico. Ma questo rapporto con la morte scava sempre di più nei sentimenti fino a scoprire il dolore più intenso della figlia e la beffa più triste nel barbone. Non si perde mai la misura di cio' che puo' essere rappresentato: il Capocomico dei Sei personaggi diceva "Qui siamo a teatro: la verita' fino a un certo punto!". In questo caso avrebbe avuto ragione: sarebbe troppo facile una riproduzione realistica della verita' dei sentimenti; avremmo avuto lamenti greci, pianti calabresi, elogi del defunto. Sulla scena si deve fare di più, a costo di risultare troppo colti e sublimi per essere verosimili. Peraltro i personaggi portano di fronte ai defunti delle crepuscolari urgenze quotidiane, come il mazzo di fiori rubato dal luogo dell'incidente di un altro morto e quindi portato via, o la moglie del sarto che ripercorre il perimetro di una casa diventata improvvisamente troppo grande. Sono proprio questi i dettagli che straziano: nell'ingiusta circostanza di un lutto familiare le persone più vicine al defunto mi dissero che la vera mancanza si sente nelle cose quotidiane.
Nella cornice delle storie il ragionatore ci costringe a pensare alla morte partendo dal senso che diamo alla vita. Uno dei personaggi dice: "E noi, ce l'abbiamo fatta?...Ma cosa dovevamo fare?!". Tutto il nostro correre alla fine ci portera' alla felicita'?
"MEGLIO AVERE MOLTO SOFFERTO CHE POCO AMATO".

visto al Tieffe Teatro Menotti il 4.XI.2010

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