Che non significa essere superficiali.
Serena Sinigaglia lo dice e ribadisce con la veemenza che la contraddistingue.
La regista dell'ATIR è stata la protagonista dell'ultimo incontro del ciclo "L'altro lato del comico" organizzato dal Piccolo Teatro nel Chiostro del Teatro Grassi, che sta incarnando alla perfezione la sua vocazione di luogo multimediale, multidisciplinare, punto di incontro e ritrovo, luogo di scambio e approfondimento.
Accanto alla sua estimatrice Claudia Cannella, la Sinigaglia ha espresso concetti densi di significato sul valore del comico nel suo lavoro di regista e di direttore artistico del Teatro Ringhiera, nella periferia difficile di Gratosoglio.
La carriera di Serena Sinigaglia inizia nel 1996 con la regia di Romeo e Giulietta, saggio di fine corso della Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi, in cui era evidente una caratteristica che sarebbe poi stata costante nel suo teatro: ridare vita ai classici non avendo paura di farne emergere gli aspetti comici. Spesso, infatti, il classico viene percepito come qualcosa di così importante che ridere sembrerebbe una mancanza di rispetto. Forse perché, alla base di questo modo di pensare, c'è l'equazione per cui la cultura alta è seria e la comicità, invece, è sinonimo di stupidità ed espressione della cultura bassa.
(Facciamo questi ragionamenti prescindendo dalla declinazione televisiva e cinematografica di comicità, che ha un'altra natura, che ricorre a un altro linguaggio, e che sempre più spesso si trova a coincidere con volgarità e superficialità).
Il comico quale genere letterario, al contrario, non solo ha pari dignità del tragico, ma anzi i due generi devono intersecarsi per dare luogo a una comunicazione che sia efficace per il pubblico: la vita stessa è una tragicommedia, nella vita lacrime e risate si intrecciano in maniera inscindibile, e dunque il teatro, che parla di vita e parla di persone attraverso le persone (gli attori), deve mettere sulla scena questa trasversalità.
Nelle tragedie l'elemento comico viene inserito al culmine di emozioni così intense da essere insopportabili per un tempo troppo lungo. La sdrammatizzazione, quindi, rappresenta una variazione di tono che consente allo spettatore di seguire meglio la linea narrativa del testo: la nostra resistenza al dolore, anche nella vita, è limitata. Per non perderci dobbiamo ridere.
Il teatro della Sinigaglia si muove tra classici e contemporanei. "Lasciamo perdere il modernariato", come dichiarato ironicamente dalla stessa regista. Assistendo alle sue regie dei classici (dai classici greci a Shakespeare, all'ultimo Garcia Lorca) si ha spesso l'impressione che il testo sia stato riscritto.
"E invece no! - dice la Sinigaglia - Io non agisco quasi per niente sul testo, se non operando dei tagli o facendolo tradurre di nuovo. Ogni parola che utilizzo è stata scritta dall'autore, perché senza il rispetto della parola dell'autore non si va da nessuna parte... Altrimenti ti scrivi il tuo testo da solo!".
Seguendo la scrittura e il messaggio dell'autore è quindi possibile ridere anche durante le tragedie, e ridare alle commedie (è stato il caso di Donne in parlamento di Aristofane) la veste comica con cui sono state concepite.
Sembra, invece, che ridere a teatro sia disdicevole, che il teatro, in quanto luogo di cultura, debba essere un luogo serio, composto. Morto, diremmo. Inutile, poi, chiedersi perché la gente non va a teatro, perché lo consideri "una cosa d'élite" (dove élite non è un complimento). A teatro la gente deve trovare vita, domande da farsi e tentativi di risposta al presente, al quotidiano. "La funzione sociale del teatro - continua ancora la Sinigaglia - non potrà mai morire!". Bisogna, però, recuperare lo spirito classico di trasversalità dei generi, ricordando che trasversalità non è sinonimo di contaminazione, ma piuttosto può essere spunto di arricchimento.
Il suo approccio ai classici deriva direttamente da Brecht, il quale in uno dei suoi Scritti teatrali intitolato Effetto intimidatorio dei classici, scrive: "La grandezza dei testi classici consiste nella loro grandezza umana (...) Come se l'umorismo fosse incompatibile con la vera dignità! Il vero rispetto che queste opere giustamente esigono richiede che ogni bigotta, adulatoria e falsa venerazione venga messa alla gogna". Da qui la levità e la sincerità che caratterizza l'approccio della Sinigaglia, sgombra da ogni pigra soggezione, ai classici.
La giovane regista, impetuosa, moderna, vitale, basa la sua concezione della regia su un pensiero che di classico ha moltissimo, ricordando Aristotele e Michelangelo.
"Il testo contiene già potenzialmente la vita. Ma è morto. Il regista deve riuscire a trovare quella linea vitale nel testo e metterlo in atto". Contestualizzando in ambito teatrale la teoria aristotelica di potenza e atto, diciamo che l'autore infonde la vita in un testo prima della sua messinscena, ma la sua vitalità rimane solo in forma di potenza finché il regista (o gli attori stessi prima che nascesse questa figura) non la traduce nuovamente in atto, in azione (e l'etimologia di attore deriva dal verbo latino agere; dunque l'attore è "colui che agisce"). Ma il movimento di portare alla luce una forma già presente nell'essenza della materia è la stessa teoria che Michelangelo aveva della sua opera di scultore.
Insomma, comico e tragico, classico e moderno sono categorie fasulle, restrittive e da superare per arrivare a un'espressione artistica vera, che sia specchio dell'esistenza e che parli al pubblico.
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