AVEVO UN BEL PALLONE ROSSO
di Angela Demattè
regia di Carmelo Rifici
con Angela Demattè e Andrea Castelli
E' una scena intima, quella che ci si offre sul palcoscenico: intima come solo una storia famigliare può essere. Nel salotto in stile anni Sessanta, riprodotto con esattezza pittorica e illuminato con gradazioni calde, domestiche, un padre e una figlia si scontrano nel più naturale dei conflitti: quello generazionale, che mette a confronto la voglia di cambiare il mondo dei figli contro il tradizionalismo dei padri. Qui, però, il conflitto si colora con i toni della rivolta studentesca che ha portato al Sessantotto, di un nuovo modello di donna consapevole del proprio corpo e delle proprie potenzialità, che non si accontenta più di avere un marito e dei figli come massima (perché unica) aspirazione nella vita; il testo si immerge nelle problematiche sociali e culturali che negli anni Settanta hanno coinvolto i giovani comunisti che volevano ampliare i diritti degli operai e liberare la mente dei cittadini per renderli consapevoli, che volevano opporsi a uno Stato oppressore e sfruttarore. Lo spettacolo è la storia di come sono nate le Brigate Rosse, e della loro fondatrice: Mara Cagol. Anzi, Margherita: ragazza intelligente, studentessa modello, figlia affettuosa.
La drammaturgia è tutta costruita sul rapporto con il padre e sull'intimità che li lega: dagli accesi scambi di opinione dell'età adolescenziale al rapporto nato in quegli anni con Renato Curcio; dagli studi alla facoltà di Sociologia di Trento al trasferimento a Milano, alla fondazione delle Brigate Rosse, alla clandestinità, all'uccisione nel 1975 durante uno scontro a fuoco con i carabinieri.
In questo sviluppo della narrazione le parole si affievoliscono progressivamente, fino a rarefarsi quasi completamente nel finale: è il sintomo di una incomunicabilità esistenziale che traduce gli scontri insanabili con il padre. Anche la lingua cambia: dall'intimità del dialetto friulano alla spersonalizzata lingua italiana dopo il trasferimento di Mara a Milano.
La materia non era facile da trattare: Angela Demattè si districa con abilità tra gli spinosi sentieri delle azioni umane, rifiutando il facile giudizio senza l'approfondimento e la consapevolezza di una condanna ai Brigatisti.
L'autrice giudica la Cagol, ma prima scava nelle ragioni di una scelta, tenta di capire, segue l'evoluzione delle sue motivazioni. Alla fine la condanna, implicita, arriva: ma nel frattempo abbiamoconosciuto il lato umano della brigatista.
Questo testo (vincitore meritato del Premio Riccione 2009) ha trovato in Angela Demattè l'interprete ideale per analizzare in profondità le intenzioni e i pensieri della Cagol, in Andrea Castelli un padre realistico e preoccupato, in Carmelo Rifici un regista in grado di entrare, grazie alla chiave del naturalismo, nelle pieghe del testo. Se dobbiamo trovare un difetto diciamo che il finale è sembrato un po' sbrigativo e il testo perde un po' di efficacia. Ma sono dettagli che non mettono in discussione la necessità di mettere in scena testi che affrontino catarticamente il passato prossimo del nostro Paese.
visto al Teatro Litta il 25.I.2011
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