mercoledì 27 ottobre 2010

I BEATI ANNI DEL CASTIGO

I BEATI ANNI DEL CASTIGO
di Fleur Jaeggy
regia di Luca Ronconi
con Elena Ghiaurov, Federica Rosellini

Sono da sempre schierata tra i più convinti anti-ronconiani. Anzi, questo regista suscita delle vere e proprie invettive contro la recitazione illogica dei suoi attori, contro la lunghezza estenuante (che spesso sembra immotivata) dei suoi spettacoli, contro lo spreco del denaro pubblico investito per realizzare i suoi trastulli scenografici (che spesso sono il solo elemento memorabile dei suoi allestimenti); insomma contro il fatto che di tutti gli elementi che costituiscono il teatro (autore, testo, attore, pubblico e in ultimo - perché arrivato per ultimo - il regista) Ronconi salva solo il regista: tutto il resto sembra perdere di significato sotto le sue mani decostruttrici. L'impressione è che, dopo gli anni della ricerca di cui nessuno nega il valore, Ronconi si sia assestato nella citazione di se stesso, rimanendo chiuso in una forma che è sempre la medesima e che non assolve alla funzione primaria del teatro: comunicare al pubblico, con il pubblico.
"I beati anni del castigo" no, non è affatto autoreferenziale. Questo spettacolo comunica con il pubblico.
Si tratta di un monologo atipico: l'io narrante, donna adulta, ripercorre gli anni del collegio e della giovinezza vissuti nell'intensità del rapporto di amicizia con la compagna di collegio; una presenza muta, questa, ma talmente energica che risulta efficace più della parola.
La scena è spogliata di qualsiasi "trastullo" scenografico: è nuda, di un biancore luminosissimo quasi violento che fa da manicheistico contraltare alle oscure emozioni che animano le protagoniste. Lo spazio si astrae da qualunque connotazione quotidiana per universalizzarsi in un luogo dell'anima.
I minimali oggetti di scena (due sedie e un tavolino a margine della scena) e i costumi senza alcuna connotazione temporale che coprono le varie sfumature pastello dei grigi e dei beige, si stagliano su questo bianco nauseante creando immediatamente un'impressione di rigore, nitidezza, misura, eleganza, che permane per tutto lo spettacolo. Tutto è concertato in maniera precisa, chirurgica. La protagonista analizza in maniera autoptica le emozioni del passato: un percorso che deve necessariamente spogliarsi di qualunque trasporto emotivo per arrivare alla comprensione attraverso il distacco oggettivo.
E' questa motivazione interiore a rappresentare l'intenzione che giustifica quella recitazione altrove definita illogica, qui mai sembrata tanto ricca di senso. Merito dell'attrice rendere così corrispondenti le parole alla vita interiore del personaggio: Elena Ghiaurov tiene inchiodati, affascina con la sua capacità di portare lo spettatore dentro a questa storia in cui le cose importanti non vengono dette ma si leggono chiaramente tra le righe di un gesto, di uno sguardo. La sua recitazione riesce a esprimere chiaramente le motivazioni interiori di ogni singola parola: in ogni pausa, in ogni accento, in ogni tono la Ghiaurov dà espressione verbale precisa a un'emozione percepita chiaramente. 
Prima di vedere lo spettacolo avevo ascoltato un'intervista a Ronconi in cui affermava che "quello che conta in teatro è la parola, le immagini sono secondarie". Con questo spettacolo si offre un'altra interpretazione al Teatro di Parola, e ci ricorda che la bellezza dell'arte è esprimere secondo differenti stili uno stesso principio.

visto al Piccolo Teatro Studio il 23.X.2010

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